Un articolo de Il Mattino del 6 febbraio 1999 racconta gli ultimi anni di vita di un’anziana coppia che viveva a Napoli, in un palazzo signorile al numero 16 di via dei Mille. Gli anziani coniugi non avevano più amici né conoscenti; da anni ormai non frequentavano più salotti borghesi, rifuggivano banchetti, incontri nei circoli e caffè letterari conducendo, praticamente, una vita da reclusi. Eppure per anni avevano frequentato l’élite culturale partenopea, da Matilde Serao a Scarfoglio. Il loro salotto, nel passato, aveva ospitato frequentemente il celebre poeta Salvatore Di Giacomo, lo scrittore Roberto Bracco e perfino Gabriele D’Annunzio.

Uscivano solo per ritirare la pensione, lui col bastone, piccolo e attonito, un lungo cappotto, lei sfiancata e stretta al suo braccio. Nessuno sapeva che quel vecchio aveva scritto un’opera diretta da Toscanini, e celebri romanze e quel piccolo capolavoro che comincia «…Nu juorno me ne jette da la casa, jenno vennenno spingule frangese»: che la madre cantava a Rosario nella culla.

Negli anni ’50 Max Vajro, famoso giornalista e scrittore napoletano, era tra i pochi ammessi a frequentare quella casa dove i due vecchi vivevano – o meglio, sopravvivevano – lontani dal mondo e fuori dalla realtà. Visto dal di fuori l’edificio appariva austero: risaliva agli inizi dell’Ottocento e mostrava una facciata sobria ed un ampio portale d’ingresso. Dentro, invece, era quasi barocco, con le scale bocciardate in pietra ruvida e un vistoso passamano in legno intarsiato. L’appartamento conservava un fascino antico e raffinato: nel salone spiccavano tendaggi di broccato, mobili di pregio e una discreta collezione di quadri d’autore; al centro della stanza alcune poltrone lise dal tempo e un polveroso tavolino di cristallo erano adagiate su un enorme tappeto, sbiadito e consunto, che sicuramente aveva vissuto tempi migliori. Addossati alle pareti c’erano due pianoforti su cui facevano bella mostra ritratti di famiglia dentro preziose cornici d’argento di varia forma e grandezza. Ma tutto l’ambiente appariva ormai decadente, sintomo evidente di un declino inesorabile che ormai durava da troppi anni. La voglia di vivere dei due coniugi s’era fermata dodici anni prima, in una fredda e piovosa giornata d’autunno quando il destino, proprio nel mezzo della battaglia conseguente allo sbarco alleato in Sicilia, li aveva condotti a San Salvatore Telesino, un paesino del Sannio dove alcuni loro conoscenti s’erano già recati per sfuggire ai bombardamenti americani. 

Era l’estate del 1943. Enrico ed Elvira De Leva avevano preso in affitto alcune stanze nella casa di Federico Rabuano (zi’ Riruccio), al secondo piano di un palazzo addossato alla chiesa parrocchiale. Con loro c’era Rosario, unico figlio della coppia, sedici anni appena compiuti. S’erano sposati tardi; lui era preso da un lavoro impegnativo, quello di pianista compositore e direttore d’orchestra, che non gli concedeva la possibilità di pensare al matrimonio ma, a poco più di cinquant’anni, aveva finalmente deciso di portare all’altare la donna che da diversi anni condivideva la sua passione, facendogli da segretaria. Erano giunti a San Salvatore col cuore gonfio di speranza e tanta felicità. Un viaggio avventuroso, condotto in treno fino ad un certo punto e poi a bordo di un calesse, insieme ad un’altra famiglia di sfollati con i più piccoli sistemati nel bagagliaio. Il borgo era tranquillo; qui le bombe venivano raccontate dalla radio. A Napoli, invece l’atmosfera era divenuta irrespirabile. Oltretutto, alle incursioni dei mastodontici B24 americani si era aggiunto anche il Vesuvio che, stanco di colorare il cielo di grigio con sbuffi di fumo dal suo cratere, aveva cominciato ad eruttare lava. Finalmente un po’ di pace, un po’ di tranquillità. Il presidio tedesco di stanza in paese faceva ogni pomeriggio il solito giro di perlustrazione, ma non dava fastidio e le giornate scorrevano con ritmo lento, imperturbabile, ovattato.

Nessun presagio di ciò che si stava compiendo.

Agli inizi di ottobre gli eventi precipitarono. I tedeschi cominciarono a minare i ponti per poi farli saltare nel tentativo di rallentare l’avanzata americana. Durante la notte, uno di quei ponti venne sminato da mano ignota, un ipotetico tentativo di sabotaggio. L’episodio fornì il pretesto ai tedeschi per l’emanazione di un bando inquietante:

«Gli uomini dai 15 ai 60 anni devono presentarsi al Comando della Veermacht entro mezzanotte. Chi non lo farà sarà passato per le armi».

All’alba del giorno seguente la famiglia De Leva fu bruscamente svegliata da violenti colpi battuti col calcio dei fucili contro il loro uscio. Erano i soldati tedeschi che rastrellavano gli uomini da deportare. Per farlo non si facevano scrupolo di violare qualsiasi intimità, senza preoccuparsi del terrore che generava quel gesto selvaggio e prepotente. Lanciando ordini incomprensibili, irruppero al secondo piano, nell’appartamento della famiglia De Leva che rimase attonita e incapace di qualsiasi reazione. Scrutarono i coniugi e puntarono subito il fucile contro il figlio che, ancora scarmigliato, dovette rivestirsi in fretta e avviarsi per le scale. Il padre era troppo vecchio per essere reclutato. 
Giunto in piazza, Rosario fu aggregato ad una piccola folla di uomini, intorpiditi dal freddo e sotto una pioggia minuta, lenta e sottile. Tutt’intorno c’erano soldati tedeschi ben armati e una mitragliatrice posta su una camionetta, orientata nella loro direzione, per scoraggiare qualsiasi tentativo di fuga. Nel giro di una mezz’ora un corteo, infoltito da nuovi arrivi, si avviò a piedi verso la Villa. Giunti presso uno slargo, al quadrivio che congiungeva Telese con Piedimonte d’Alife, il gruppo venne fatto salire su due camion che stazionavano al centro della carreggiata. Un cordone militare teneva a debita distanza i familiari dei poveri sventurati, preoccupati per la sorte dei loro cari. A testa bassa salì sul camion anche Rosario, i tedeschi furono inflessibili, incuranti delle grida straziate di Elvira che, in camicia da notte e sotto una pioggia incalzante, implorava disperatamente il rilascio del figlio invocando la Vergine con le braccia al cielo.
Fu l’ultima volta che gli anziani coniugi videro il loro Rosario. Lo ritrovarono cinque giorni dopo, crivellato dai colpi di una mitragliatrice, in una chiesetta di contrada Odi a Faicchio. Giaceva insieme ad altri tre amici, anche loro vittime della stessa sorte. Stavano tornando a casa, liberi dalla prigionia tedesca, ma lungo la via del ritorno s’erano imbattuti in una pattuglia nemica che li aveva crudelmente assassinati.

La famiglia De Leva. Da sin.: Enrico, Rosario e Elvira

Biografia di Enrico De Leva:

Enrico De Leva nacque nel popoloso quartiere di San Ferdinando il 18 gennaio 1867, lo stesso anno di Pirandello. I suoi genitori, Salvatore e Giuseppa Casaccoli, compresero subito il grande talento musicale del loro giovane figliolo e lo avviarono come alunno interno al Conservatorio di S. Pietro a Maiella, affidandolo agli insegnamenti di un grande maestro di pianoforte, Florestano Rossomandi e alla grande esperienza di Nicola D’Arienzo, maestro di storia della musica e composizione. Studiò poi con Luigi Sangermano, ultimo discepolo del famoso Saverio Mercadante, di cui fu l’unico allievo. Iniziò giovanissimo a comporre canzoni napoletane, cui si dedicò per tutto l’arco della sua esistenza e alle quali è legata la sua fama. Si impegnò anche nella composizione di opere più ardue e complesse quali lavori teatrali e sinfonici: tale attività ebbe inizio con l’opera in quattro atti La Camargo, su libretto di G. Pessina, rappresentata al teatro Regio di Torino il 2 marzo 1898 sotto la direzione di A. Toscanini (l’opera, modificata in alcune parti fu riprodotta al teatro S. Carlo di Napoli il 23 aprile dello stesso anno diretta da E. Vitale). Inoltre, pur non avendo conseguito alcun diploma, la solida preparazione maturata negli anni di permanenza nel conservatorio napoletano e la laboriosa esperienza quale autodidatta gli consentirono di iniziare una brillante carriera concertistica come pianista e iniziò le sue tournée in varie città italiane e straniere. Nel 1908 fu a Londra per un’acclamata tournée di concerti al seguito di Francesco Paolo Tosti, cantante e autore di celebri romanze da salotto. Il prestigio raggiunto nella sua città gli procurò incarichi e pubblici riconoscimenti: nel 1907 successe a N. D’Arienzo come direttore artistico dell’istituto musicale dei Ss. Giuseppina e Lucia di Napoli.
Svolse anche un’intensa attività didattica, prima come docente privato e poi, a partire dal 1915, come titolare della cattedra di canto nel conservatorio di S. Pietro a Maiella. Nominato più volte membro di giurie di concorsi e commissioni artistiche, si dedicò anche all’attività di conferenziere e nel 1905 tenne al Circolo filologico di Napoli la conferenza «Impressioni e giudizi musicali», in cui affrontò vari problemi di attualità e in particolare quello relativo alla divulgazione del wagnerismo in Italia. Nel 1916 fu tra gli organizzatori del comitato di festeggiamenti per il centenario di Giovanni Paisiello, di cui pronunziò il discorso celebrativo. Venne nominato, inoltre, Presidente del primo congresso della Federazione orchestrale italiana tenutosi a Milano nello stesso periodo.

Enrico De Leva al pianoforte

Legato da profonda amicizia a Gabriele D’Annunzio, ebbe giovanissimo i primi riconoscimenti per la sua delicata vena poetica, tra cui un contratto offertogli dall’editore Ricordi, che se ne assicurò la collaborazione, pubblicando molte sue composizioni. 
Particolarmente significativo fu il sodalizio artistico stabilito con Salvatore Di Giacomo, dalla cui collaborazione nacque, nel 1888, la più celebre delle sue canzoni, la gustosa e ironica ‘E spingole frangese, ispirata a modelli d’intonazione popolare. A Piedigrotta fu un delirio; il motivo entrò subito nel repertorio del teatro di varietà e di tutti i divi del café-chantant superando ben presto i confini nazionali.
Il sodalizio con Salvatore Di Giacomo gli consentì di musicare, oltre alla nota ‘E spingole frangese, diverse altre opere tra cui: il duetto Ammore piccerillo, la squisita A Capemonte riecheggiante la graziosa levità del Settecento napoletano, la pastorale ‘a NuvenaLacreme amareLassame staBonnì bonnìRose Rusé e l’arietta Nu pianefforte ‘e notte
Non meno proficua fu la collaborazione con Roberto Bracco, autore nel 1908 di una raccolta di testi poetici che offrirono al De Leva vari spunti d’ispirazione. Dalla raccolta nacquero canzoni ispirate a canti tradizionali come ‘O munaciello e ‘Nù passariello sperzo.
Particolarmente significativo fu il contributo di De Leva all’arte del canto che trovò il suo ambiente ideale nel clima spumeggiante e raffinato del salone Margherita, il più elegante café chantant partenopeo, ove riviveva la spensierata atmosfera parigina e dove, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo, vi sfilarono i nomi più prestigiosi del cosiddetto teatro minore internazionale, tra cui Nicola Maldacea, Fregoli, Elvira Donnarumma, Cléo de Merode, e la bella Otero.
Altrettanto ricca fu la sua produzione di romanze in cui, seguendo il filone della tipica romanza all’italiana di tradizione ottocentesca, ripercorse le tappe d’una gloriosa tradizione melodica che aveva trovato a Napoli il suo ambiente ideale.
Tra le sue canzoni napoletane pubblicate da diversi editori, tra cui la Casa Editrice Ricordi di Milano, si ricordano: Nun me guardà (poesia di P. Cinquegrana, Milano 1884); ‘A novena (S.Di Giacomo, ibid. 1888); Bonnì ! Bonnì ! (S. Di Giacomo, Napoli 1888); ‘E spingole frangese (S. Di Giacomo, Milano 1888); Vocca ‘e rosa (G. Turco, ibid. 1889); A Capemonte (S. Di Giacomo, ibid. 1890); I bersaglieri (M. Giobbe, Napoli 1895); ‘Nu passariello sperzo (R. Bracco, Napoli 1901); Voce luntana (S. Di Giacomo, Milano 1910); Scusate, si, ve prego (R. Bracco, London 1913); inoltre, tutte pubblicate dall’editore Ricordi, ma senza indicazione di data: Amore piccerillo (S. Di Giacomo); Durmenno (R. Bracco); Lacreme amare, Lassamme sta!, Rosa! Rosè! (S. Di Giacomo); Nanninè, Suspirata (F., Russo); ‘O munaciello (R. Bracco); Campana d’ammore (P. Ruocco, Napoli 1939). Delle oltre cento romanze, tutte pubblicate a Milano dall’editore Ricordi salvo diversa indicazione, si ricordano: Stelle cadenti (L. Conforti, 1893); Vecchio mistero (N. Misari, 1893); Voce del vento (F. Cimmino, 1899); A che pensi ? (E. Praga, 1899); Alla neve (G. De Abate, 1899); Bocca adorata (O. Caterini, 1899); Cuore e cavallo (E. Panzacchi, 1899); Distacco (G. Bellezza, 1899); Finirti a’ piè (E. Castellano, 1899); Mentre ritorna il sole (E. Panzacchi, 1899); Non lo sa ! (L. Stecchetti, 1899); Notte sul mare (F. Cimmino, 1899); Perché ? (D. Milelli, 1899); Rêvons c’est l’heure (P. Verlaine, 1900); Mentre tu canti (E. Panzacchi, 1901); E non ti basta ancor ? (G. Perruzzini da H. Heine, Firenze 1902); Sotto le finestre (G. De Monaco, Napoli 1907); Dolce menzogna (O. De Sica, 1907); Vegliando (C. Enrico, 1908); Mentre tu dormi (R. Mazzola, 1908); Canta il mare (R. Mazzola, 1910); Notte di luna (L. Laccetti, 1913); L’anima sogna (R. Mazzola, 1913); Come voi, arietta di stile antico (G. Chiabrera, 1913); Dolce sorriso, chiara pupilla, rispetto popolare (1913); Passa Pierrot (R. Mazzola, 1918); La pavana (R. Mazzola, 1919); Per l’azzurro (R. Mazzola, 1919); Bionda signora (O. De Sica, 1919) e varie altre su testi di F. Dall’Ongaro, G. Costa, R. Bracco, G. Possina, R. Pagliara ed E. Panzacchi.
Compose inoltre vari pezzi per pianoforte, pubblicati dall’editore Ricordi, salvo diversa indicazione; ricordiamo tra gli altri: Heures delicieuses (1911); Canzone, Gavotta, Minuetto, Pagine d’album (s.a.); Maschere (1913); Tristezza (1913); Réverences à la Marquise (1913); Gondoliera (1918); Bon soir Colombine (London 1911). Tra le composizioni di più ampio respiro si ricordano: Le quattro stagioni d’amore. Epithalamio del cavalier Pessina con echi melodici del maestro E. De Luca (Napoli 1889); La sirenetta (da La Gioconda di G. D’Annunzio per soprano e orchestra) e infine una Suite in quattro tempi per orchestra (Londra s.a.).

Il Café Chantant a Napoli

Rallentata l’attività negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, la interruppe completamente a partire dal 1943 in seguito alla tragica fine dell’unico figlio Rosario, trucidato a soli sedici anni dai tedeschi. Morì a Napoli il 23 luglio 1955.

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Bibliografia:

E. Bove, L’ultima notte di Bedò, Ed. Vereja, Benevento, 2008
S. Di Massa, Il Café-chantant e la canzone a Napoli, Ed. F. Fiorentino, Napoli, 1969



Emilio Bove

Medico e scrittore. Ha all’attivo numerose pubblicazioni tra cui una Vita di San Leucio, dal titolo «Il lungo viaggio del beato Leucio», edita nel 2000. Ha pubblicato nel 1990 «San Salvatore Telesino: da Casale a Comune» in cui ripercorre l’evoluzione del suo paese dalla nascita fino alla istituzione del Comune. Ha scritto il romanzo-storico «L’Ultima notte di Bedò», vincitore del Premio Nazionale Olmo 2009 che narra la storia di un eccidio nazista perpetrato nell’ottobre 1943. Nel 2014 ha dato alle stampe la storia della Parrocchiale di Santa Maria Assunta con la cronotassi dei parroci. È autore di un saggio sulla storia della depressione dal titolo: «Il potere misterioso della bile nera, breve storia della depressione da Ippocrate a Charlie Brown». Ha partecipato all'antologia "Racconti Campani" e al volume "Dieci Medici Raccontano", vincitore del Premio Letterario Lucio Rufolo 2019. Nel 2021 ha dato alle stampe «Politica e affari nell'Italia del Risorgimento. Lo scontro in Valle telesina. Personaggi e vicende (1860-1882)». Collabora con numerose riviste di storia. Presidente dell’Istituto Storico Sannio Telesino è Direttore Editoriale della Casa editrice Fioridizucca.