Nel composito insieme della ritualità popolare, caratterizzata da molteplici funzioni e numerosi significati, le cronache locali del primo Settecento riportano i momenti salienti di una magnifica ed originale cerimonia, appannaggio esclusivo della nobiltà, che si incastra perfettamente nel mosaico delle tradizioni pagane e religiose del Sannio Beneventano;1A tal proposito, per un maggiore approfondimento, si segnala: A. CIERVO, M. CIERVO, Miti, riti e credenze del Sannio Beneventano, Musicalia-MicroPRINT, Benevento, 1991. nelle principali fasi dello spettacolo si instaurava, infatti, un rapporto alquanto inusuale tra l’alta aristocrazia di Benevento e il clero cittadino allora dominante nel territorio sannita. Si tratta, invero, di una celebrazione – della quale si osserveranno i momenti precipui in chiave storico-culturale – indissolubilmente legata alla festività dell’Assunta che, come è noto, ricorreva, e ricorre, al giorno di Ferragosto. In occasione di tale solennità veniva inoltre inaugurata la fiera di S. Bartolomeo, ovvero la più importante rassegna commerciale dell’allora comunità beneventana.2Sono quattro le fiere beneventane ricordate dagli Statuti, tutte aventi la propria rilevanza economica: quella di S. Francesco (4 ottobre), dell’Annunziata (25 marzo), di S. Onofrio (12 giugno) e di S. Bartolomeo (24 agosto). La più estesa in termini di tempo era proprio quest’ultima; durava infatti quattordici giorni, dal 15 al 28 agosto (in G. GIORDANO, Aspetti di vita beneventana nei secoli XVII-XVIII, Dehoniane, Napoli, 1976, p. 65).
L’intera rappresentazione, che si snodava lungo le vie principali della città nel corso di metà giornata, si traduceva in una maestosa e «pomposa» cavalcata signorile alla quale prendevano parte i maggiori rappresentanti della sfera politico-religiosa, nonché i membri più in vista dell’alta nobiltà di Benevento e delle contrade limitrofe. Si trattava di un immenso cerimoniale che culminava, sostanzialmente, in due grandi momenti rituali: in primo luogo, nella consegna dello stendardo della fiera ad un importante magistrato cittadino – il Capoconsole3 Come si evince dall’Istoria della Città di Benevento di Enrico Isernia, «nel XII secolo fu istituito in Benevento il magistrato dei consoli (…) limitata unicamente alla cura della sicurezza pubblica, della annona e di altre poche cose», in E. ISERNIA, Istoria della Città di Benevento dalla sua origine fino al 1894, Volume 2, Stab. Tip. A. D’Alessandro e Figli Editori, Benevento, 1896, pp. 92-93. – sul sacro altare della chiesa di Santa Sofia; quindi, nel dono del medesimo stendardo al Mastromercato, colui il quale si occupava di regolare lo scambio delle merci durante tutto il periodo della fiera. Per quanto concerne le fonti di studio, sono due le trascrizioni a stampa a nostra disposizione risalenti, rispettivamente, al 1703 e al 1705.4Rispettivamente, G. DE NICASTRO, Le Pompe del Sannio, in Benevento – Stamperia Arcivescovile, 1703 e, dello stesso, Il Sannio Festeggiante, in Benevento – Stamperia Arcivescovile, 1705.
La ricerca si svilupperà dunque in maniera diacronica, seguendo l’ordine sequenziale degli eventi e operando i dovuti parallelismi laddove occorrerà. Oltre a fornire gli elementi necessari per la comprensione della struttura gerarchica del potere, la lettura delle cronache non manca di offrire spunti interessanti sull’apparire e sulla gestualità degli attori durante le diverse fasi della cerimonia. Questo argomento verrà messo particolarmente in risalto. Ma, ancor prima di descrivere i momenti apicali della celebrazione e di osservare i comportamenti rituali maggiormente ostentati, è doveroso soffermarsi brevemente sul colto cronachista di queste narrazioni; il suo nome è Giovanni de Nicastro (1659-1738), nato a Benevento da famiglia patrizia e formatosi culturalmente tra Napoli e Roma.5Sulla non semplice figura di Giovanni de Nicastro si rimanda a: E. GRECO, A proposito di Giovanni de Nicastro, in Atti della Società storica del Sannio, anno 1., n. 2 e 3, Benevento, Cooperativa Tipografi, 1923, pp. 3-9; A. ZAZO, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, F. Fiorentino, stampa 1973, Napoli, pp. 149-150; ma, soprattutto, A. ZAZO, Figure e visioni del Settecento beneventano, in Atti della Società storica del Sannio, Anno 1, fasc. 1 (nov. 1922), Benevento, Cooperativa Tipografi, 1922, pp. 72-102. Nel caso delle presenti cronache, l’autore si firmò con lo pseudonimo di Bartolomeo Castrodeni. Rivolgendosi al lettore, ne motivò le ragioni in questi termini: «…Che poi io abbia mascherato il mio nome e cognome, non deve istillarti maraviglia. Hanno il loro Carnevale anche le Stampe. Consapevole delle mie rozzezze (…) ho stimato in tal maniera di ostentar qualche briciolo di modestia, e di sfuggire apertamente i morsi rabbiosi dei Critici (…) Chi scarseggia di sapere non deve esser sovrabbondante di censure, non havendo abilità o ufficio di Censore (…)Viverai felice, cortese Lettore, se saprai astenerti dal censurare e dare alla luce composizioni non soggette a censure», in G. DE NICASTRO, Il Sannio Festeggiante…, pagine non numerate nel prologo. Nel XVIII secolo l’anonimato era molto più diffuso di quanto si immagini: vuoi per il timore di censura e delle critiche, vuoi per lo status sociale da difendere. Nel caso del Nostro, uomo notoriamente colto ed erudito, il motivo è chiaro: pur difendendone il lavoro, era consapevole di trattare «materie inutili» che mal si coniugavano con la sua persona. Dai suoi scritti si può notare, inoltre, come il fantasma della censura aleggiasse forte nel mondo autoriale, allora per nulla tutelato (ndr).
Letterato ed erudito scrittore, il de Nicastro è una figura strettamente connessa alla realtà locale del suo tempo; ordinato sacerdote in giovane età, entrò ben presto nella cerchia del Cardinale Orsini6Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII, nonché arcivescovo di Benevento per oltre quarant’anni, sino alla morte avvenuta nel 1730 (ndr). ed ebbe modo di costruire, nell’arco di pochi anni, una carriera ecclesiastica assai degna di rilievo: è stato, infatti, protonotario apostolico, esaminatore sinodale e uditore generale dello stesso Gravina; fu poi nominato arcidiacono del Capitolo Beneventano e, per la sua crescente fama di studioso, venne di lì a poco acclamato «principe» dell’Accademia dei Ravvivati; nel 1724 prese, infine, pieno possesso della diocesi di Claudiopoli. Oltre a ricoprire eminenti cariche pubbliche e religiose, de Nicastro è stato anche un valevole esponente della tipografia arcivescovile promossa dall’Orsini sul finire del Seicento; ed è per i tipi della stamperia diocesana che pubblicò gli scritti che in questa sede approfondiremo.
Lo scenario all’interno del quale si collocano i suddetti racconti è decisamente complesso; sullo sfondo dei magnifici eventi della Fiera appare, infatti, una Benevento più che mai funestata dai terremoti: quello del 5 giugno 1688, che causò il decesso di oltre mille abitanti,7Come riportato dal Greco, la città di Benevento passò da 7834 abitanti ante-sisma, alle 6312 unità «dopo quell’immane disastro», in : E. GRECO, A proposito di Giovanni de Nicastro…, p. 3. e quello del 14 marzo 1702, numericamente meno devastante del primo, ma parimenti catastrofico per gli innumerevoli danni apportati agli edifici pubblici e privati della città.8Secondo le stime dell’architetto romano Carlo Buratti, allora incaricato alla ricostruzione, «i danni ascendevano a 2750 ducati così ripartiti: 450 per il risanamento del Palazzo Apostolico; 400 per il risarcimento delle mura della Città; 700 per la riparazione del Palazzo Magistrale; 950 per il ponte di S. Maria degli Angeli e 250 per quello Leproso», in A. ZAZO, Curiosità storiche beneventane, Benevento, Edizioni De Martini, 1976, p. 67. Di quest’ultimo, lo stesso de Nicastro ebbe modo di tratteggiarne i momenti più concitati in un’opera risalente al medesimo anno,9G. DE NICASTRO, Efemeride del IX tremuoto di Benevento, Napoli, 1702. così come, seppur molto brevemente, si fanno brevi accenni nel prologo delle cronache. I toni utilizzati dall’Autore sono encomiastici nei confronti del popolo beneventano, che con grande forza e coraggio seppe riprendersi rapidamente dalle avversità della natura:
Anche tra i fulmini delle sventure balena qualche lampo avventuroso di grazia. Tra i naufragi si gode la sicurezza del porto. Tra le tempeste più furiose si respirano più lusinghiere le calme. Tra i cipressi germogliano più pregiati gli Allori. I Mausolei si cambiano in Campidogli. Le sconfitte si sposano con i Trionfi. Tanto è accaduto a Benevento funestata da raddoppiati Tremuoti. Essi non han servito ad altro, che per farla risorgere più magnifica.10G. DE NICASTRO, Il Sannio Festeggiante…, p. 2.
Ma veniamo al tema principale della ricerca, partendo dallo scritto del 1703. L’Autore evidenzia, innanzitutto, la portata storica dell’evento; egli ricorda come, sin dai secoli più remoti, a Benevento si soleva «pompeggiare» una nobile cavalcata che emulava l’ingresso trionfale dell’Imperatore Traiano per la Porta Aurea, l’antico nome con il quale veniva identificato il celebre arco a lui dedicato. Quindi ne elogia il promotore, ovvero il Magistrato «detto dei Consoli», di famiglia chiaramente patrizia.11Il Capoconsole in questione è Francesco de Simone, molto probabilmente imparentato con Niccolò de Simone, rinomato prelato curiale di Benevento citato dallo stesso de Nicastro sul frontespizio dell’opera. Allo stesso modo dell’autore delle cronache, l’amicizia con il Cardinale Orsini fu determinante per l’ascesa della famiglia de Simone. Come riportato dal Zazo, Niccolò «fu tra i familiari di Benedetto XIII che l’ebbe in conto per la sua cultura letteraria (…). Nel 1724 gli affidava un incarico che toccava la sua diletta Benevento (…): la vigilanza sul Moltiplico Orsini, ente voluto dal benefico pontefice per attenuare la grave disoccupazione cittadina attraverso l’industria della lana e della seta», in A. ZAZO, Dizionario bio-bibliografico del Sannio…, pp. 157-158.
La preparazione alla festa dell’Assunta era a dir poco immensa, a cominciare dal numero dei partecipanti: alla già nutrita compagnia di Benevento si univano, infatti, i «generosi e bizzarri cavalli» concessi in prestito dal Regno di Napoli. Lo sfarzo, neppure a dirlo, era della massima importanza nonostante i numerosi inviti, da parte di Roma, a moderare il lusso e «ad allontanarsi dalle pompe che sono sì perniciose ai buoni costumi».12Il 27 gennaio 1703, il Cardinale Marescotti, prefetto della Congregazione per le spese suntuarie, invitò l’allora governatore pontificio di Benevento, monsignor Faustino Crispolti, ad illustrare nel pubblico Consiglio i voleri del Papa e di divulgarli alla cittadinanza. Di seguito uno stralcio del suo intervento: «(…) Con l’esimersi volontariamente dalle spese superflue, riconoscendosi sempre più il danno gravissimo che ne proviene, si partecipi questo benigno sentimento della Santità Sua, in cotesto pubblico Consiglio, affinché (…) in esso si rifletta (…) di vietare e in che modo gli habiti ed ogni altra cosa con oro ed argento, benché falsi, limitare ancora la qualità e la quantità delle gioie, merletti, livree, servitori, carrozze (…) di modo che abbia a costituirsi una moderata regola nel vestire et altro, benché civile e senza lusso, da osservarsi per sempre», in A. ZAZO, Curiosità storiche beneventane…, p. 69. Si annoveravano, infatti, «preziosi e vaghi arnesi dei medesimi cavalli» e poi «un numero trabocchevole delle livree, specialmente dei parafranieri della Città e del suddetto signor Capoconsolo […] colle inestimabili vesti dei Cavalieri guernite di oro e di gemme».13G. DE NICASTRO, Le Pompe del Sannio…, pp. 7-8. I palafrenieri, appartenenti alla corte papale, erano i responsabili delle scuderie pontificie. Devono l’origine del loro nome al termine parafreno, utilizzato per indicare i cavalli da esibizione.
Segue, quindi, la descrizione del sontuoso banchetto che tradizionalmente si consumava presso il Palazzo del Capoconsole con al seguito la nobiltà beneventana. Scrive il de Nicastro:
Sulle 20 ore si portò nel palazzo del Signor Capoconsole quasi tutta la Nobiltà. Ivi fu trattenuta con preziosissimi rinfreschi di cioccolata e sorbetti di più sorte. Si aggiunsero più bacili di canditi e dolci di ogni specie. Inoltre si gustarono frutta agghiacciate in abbondanza. Nuotarono nei cristalli più limpidi ed in vasi di argento dorato, le lacrime più pregiate che suole il monte di Somma abbondantemente stemperare; in breve si gustò quanto di nettare e di ambrosia più preziosa producono Bacco, Cerere e Pomona. Vi convennero altresì gli altri Signori del Magistrato tutti vestiti con i loro riguardevoli e maestosi roboni e serviti da numeroso corteggio.14Ibidem. Le «20 ore» riportate nel testo non devono trarre in inganno: non corrispondevano, invero, alle ore 20:00 del nostro tempo, bensì alle 14:00 circa pomeridiane. Ad inizio Settecento, le ore venivano infatti numerate mezz’ora dopo il tramonto, quando le campane suonavano l’Ave Maria (ndr).
L’opulenza che accompagnava tali ricevimenti, come si evince da questo passaggio, era altamente smisurata e carica di eccessi, come altrettanto lussuose erano le vesti dei commensali, nel pieno rispetto dei codici vestimentari attinenti al contesto di corte. Una volta concluso il fastoso rinfresco, si giungeva all’esecuzione del primo importante rituale presso la chiesa di Santa Sofia:
Sulle 22 ore in circa, tutti i Signori che dovevano cavalcare, insieme col Signor Capoconsole, si posero a cavallo e si diportarono nel Palazzo Apostolico da Monsignor Governatore Faustino Crispolti, nobile della città di Perugia e canonico della Basilica Vaticana. Arrivati nel suddetto Palazzo, si udì suonare subito la campanella solita a suonarsi nel ricevimento dei personaggi grandi. […] Incontratisi a piè delle scale con Monsignor Governatore, dopo rispettoso saluto, ritornarono ai loro cavalli siccome fece altresì, monsignor Governatore. Questi a destra del Signor Capoconsole e tutti gli altri, si avviarono all’insigne tempio di S. Sofia. […] Quivi nell’atrio, rimanendo monsignor Governatore con tutti gli altri a cavallo, discese solo il Signor Capoconsole ed entrò nel Tempio. […] Al comparire del Signor Capoconsole, si cominciò a cantare dai musici un bellissimo mottetto. Arrivato poscia il Signor Capoconsole all’altare, genuflesso su un cuscino di velluto color celeste, ricevette lo stendardo o labaro, insegna della Fiera di S. Bartolomeo. Gli fu consegnato con le antiche formalità e cerimonie. Quale ricevuto, licenziatosi egli dal celebrante, con scambievoli inchini, uscì di chiesa e montò a cavallo.15Ivi, pp. 8-9.
Emerge, dunque, in prima istanza, il forte legame che univa il Capoconsole e il clero beneventano di quel periodo; non bisogna infatti dimenticare che la città longobarda è stata per lunghi secoli un’enclave pontificia governata da rettori papali. A tal riguardo è importante inoltre evidenziare come, nei primi decenni del Settecento, Benevento fosse retta da una diarchia solida e ben consolidata: da un lato si aveva, infatti, il delegato pontificio; dall’altro l’arcivescovo Orsini, che poteva vantare una capacità d’influenza ancora più forte all’interno delle mura cittadine. Sebbene il Consiglio comunale giocasse anch’esso un ruolo primario nelle gerarchie di governo, il potere della città era detenuto solo ed esclusivamente dallo Stato della Chiesa; uno scenario, questo, che rimase immutato sino all’unità d’Italia, con la sola eccezione della breve parentesi napoleonica. Appare dunque chiaro, a fronte di quanto detto, che la Fiera di S. Bartolomeo potesse realizzarsi unicamente sotto l’egida ecclesiastica. L’aspetto più rilevante che si può ravvisare in questo passaggio è dato però dal carattere della cerimonia che, da profano qual era all’origine, assurge, ora, alla dimensione del sacro, come molto spesso avveniva nel Medioevo. L’investitura liturgica del Capoconsole in qualità di patrocinatore della fiera è, non a caso, una rievocazione rituale di quel tempo.
Riprendendo il filo del racconto, la cavalcata, una volta compiuto il rito in Santa Sofia, entrava finalmente nel vivo. In primo luogo vi si aggregava una compagnia, capitanata da Niccolò Zambotti, composta da «seicento e più soldati spiritosi e ben vestiti»; quindi l’intero corteo si dispiegava secondo un preciso ordine gerarchico:
Seguivano alcuni soldati a cavallo al numero di dodici, quindi due bizzarri cavalli portati a mano con selle ricamate d’oro e d’argento. Si vedeva poi una gran torma di palafrenieri della Città e del Signor Capoconsole a destra e di Monsignor Governatore a sinistra, tutti scoperti e guarniti di bellissime livree. Il Capoconsole sosteneva i fiocchi dello stendardo, portato da un palafreniere della Città. A sinistra del Capoconsole cavalcava monsignor Governatore vestito con sottana e mantelletta violacea, con imprezzabile rocchetta. Eranvi ai lati due palafrenieri colle ombrelle; i soldati marchigiani al numero di trenta facevano le veci di alabardieri colle alabarde alle mani, accerchiando tutti i Signori del Magistrato. A questi signori seguivano il Sindaco, il Cancelliere, il Tesoriere ed altri oficiali della Città, tutti con cavalli nobili e nobilmente addobbati. Seguivano cavalieri altresì ben guerniti, e serviti da numerosi stafferi con ricche livree.16Ivi, pp. 11-12.
Al vertice della scala sociale ben tratteggiata dal de Nicastro troviamo, pertanto, il potere laico della città e quello religioso; poco più dietro spiccava l’entourage del Capoconsole ed infine, in chiusura di processione, emergevano le alte cariche amministrative della città, tra cui il Sindaco e il Tesoriere. La plebe, come si può facilmente immaginare, non era ammessa all’evento; aveva senz’altro modo di ammirare lo spettacolo dal di fuori, benché, di fatto, non venga mai menzionata dall’Autore delle cronache. Da come si legge, infatti, «vi concorsero dame e baroni trattenuti […] in vari Palazzi della generosità Beneventana. Essi concordemente affermarono essere stata la Pompa grande […] ed invero ella fu degna di sì nobili spettatori».17Ivi, p. 16. A conferma, se ce ne fosse il bisogno, del carattere nobiliare dell’evento.
L’estratto riportato poc’anzi ci consente di approfondire ancora, e più nello specifico, il tema delle vesti e del lusso; ogni singolo componente sfoggiava infatti bellissime e «ricchissime» livree e, sebbene i colori non siano stati appuntati dal de Nicastro, è lecito immaginare che fossero tutto meno che severi o tendenti allo scuro. Un indizio potrebbe essere dato dal fatto che i patrizi a cavallo indossavano, per l’appunto, vesti ricamate d’oro18La tessitura auroserica indicava uno status notevole, proprio dell’uomo nobile dell’epoca (ndr) e ricoperte di gemme; lo stesso governatore pontificio, Faustino Crispolti, esibiva un abito di colore viola di «imprezzabile» tessuto, simbolo certamente non di sobrietà. Si tratta, invero, di un’opulenza vestimentaria vivace e al tempo stesso smisurata, ma in perfetta sintonia con i dettami di Baldassarre Castiglione, autore del celebre Cortegiano pubblicato per la prima volta nel 1528; appare infatti del tutto evidente che, a distanza di quasi due secoli, risuonassero ancora gli echi di quel grande trattato sul comportamento che influenzò gli ambienti cortigiani di tutta Europa. È precisamente nel libro II – cap. XXVII – che il Castiglione definisce le proprie indicazioni sul vestire nelle occasioni pubbliche (siano esse giostre, cerimonie laiche e religiose, o feste in maschera);19«… Non è dubbio che sopra l’arme più si convengan colori aperti ed allegri, ed ancora gli abiti festivi, trinzati, pomposi, superbi. Medesimamente nei spettaculi publici di feste, di giochi, di mascare e di tai cose; perché così divisati portano seco una certa vivezza ed alacrità, che in vero ben s’accompagna con l’armi e giochi», in B. CASTIGLIONE, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, Firenze, Sansoni Editore, 1894, p. 156. indicazioni, come si è potuto vedere, scrupolosamente osservate dai singoli partecipanti della cavalcata beneventana. A margine di quanto detto, è importante rilevare lo spazio che il de Nicastro riserva persino ai cavalli da parata, finemente inghirlandati al pari dei gentiluomini; un dettaglio, questo, sicuramente non marginale. È plausibile pensare che, alle fondamenta della «fusione cromatica» tra cavaliere e destriero, si celasse un sentimento cavalleresco, di medievale memoria, ancora non del tutto sopito negli ambienti nobiliari del Settecento.
Sul finire della cronaca il de Nicastro descrive dunque, con fare minuzioso, il lungo tratto percorso dai cavalcanti per le strade di Benevento: in primo luogo, essi si avviarono in direzione del Palazzo della Città percorrendo la «via maestra»,20La via maestra è, con ogni probabilità, l’attuale Corso Garibaldi; il Palazzo della Città corrisponde, invece, al Palazzo Paolo V, allora sede municipale.[ e da qui si diressero alla volta del Duomo; quindi si spinsero verso la parte meridionale del centro, per ritrovarsi, poi, nuovamente davanti alla Cattedrale e recarsi alla chiesa di S. Bartolomeo. Il corteo, che passò per il Palazzo Arcivescovile, fu ammirato anche dal Cardinale Orsini, che si trovava in disparte e non fu notato dalla folla. La nutrita schiera di cavalieri giunse, infine, a Porta Rufina, per fermarsi nei pressi della chiesa di Santa Maria della Libera, luogo di culto oggi non più ammirabile. Ed è qui che si realizza il secondo importante rituale che, di fatto, inaugurava ufficialmente la Fiera di S. Bartolomeo: «fu per atto pubblico», infatti, «consegnato lo Stendardo al signor Mastromercato», secondo «l’antica immemorabile costumanza». Il delicato connubio tra sacro e profano si era dunque compiuto del tutto. Esaurita quest’ultima prassi, la Cavalcata giungeva finalmente al suo termine: il Governatore Crispolti, con i dovuti omaggi, si ritirò nelle proprie stanze e, «verso mezz’ora di notte», il Capoconsole rincasò anch’egli nel suo Palazzo scortato dai suoi più fidati collaboratori. La cerimonia poteva dirsi conclusa. Veniamo, adesso, alla seconda cronaca sopra menzionata, Il Sannio Festeggiante. Leggendola attentamente, si noterà come la narrazione degli eventi sia sostanzialmente la stessa de Le Pompe nel Sannio, seguendo il medesimo ordine: troviamo, infatti, la descrizione del lauto banchetto, sempre riccamente assortito, presso il Palazzo del sommo Magistrato; quindi, il resoconto del rito in Santa Sofia con la consegna dello Stendardo della Fiera secondo le «solite antiche cerimonie»; infine, l’accurata illustrazione della nobilissima cavalcata e l’incontro conclusivo tra i vertici della città e il Mastromercato. Nel nuovo scenario mutano soltanto i nomi dei singoli attori, inclusi quelli del Capoconsole e del Governatore Pontificio.21Il Capoconsole della pompa del 1705 è Niccolò Sozi Carafa, barone patrizio beneventano, la cui famiglia era originaria di Perugia; il Governatore Pontificio è invece Niccolò Maria Lercari, rinomata figura ecclesiastica, in carica dal 16 gennaio 1705 sino alla fine del 1707 (ndr). Per tale ragione, non verranno analizzate nel dettaglio le fasi distinte della festa, giacché si compirebbe una tediosa ripetizione di quanto già detto in precedenza. Eppure, qualcosa di inedito c’è. E riguarda l’allestimento del suddetto Palazzo della Città «adornato in così magnifica, e pomposa maniera, che cagionava diletto, e meraviglia ad ognuno».22G. DE NICASTRO, Il Sannio Festeggiante…, p. 10. In prossimità della facciata dell’edificio, venne infatti innalzato un arco trionfale di sconfinata bellezza, colorato da «stimato Pennello».
Questo era sostenuto dalle statue della Clemenza e della Giustizia, al di sotto delle quali erano stati posti degli epigrammi.23 Nel caso della statua della Clemenza, si legge il seguente motto: «Roborabitur Clementia Tronus eius» (Proverbi 20, 28) ovvero «sulla clemenza (del re, ndr) è basato il suo trono»; il secondo, quello sulla Giustizia, recita così: «Justìtia elevat gentem» (Proverbi 14, 34). Quindi, situati in bella vista, sul medesimo arco «erano dipinti due bizzarri Orsi, che sono l’impresa del Signor Capoconsolo. Sostenevano essi nelle zampe due cartelloni con questi due motti: Pavidis Amuletum /Irridentes dilaniant».24G. DE NICASTRO, Il Sannio Festeggiante…, p. 10. In alto a tutto si stagliava, inoltre, una lunga iscrizione celebrativa nei riguardi del pontefice di allora, papa Clemente XI, delle personalità più illustri di Benevento, ovvero il Cardinale Orsini e il Governatore Pontificio, ed infine del Capoconsole, patrocinatore della fiera. 25 Così recitava (riporteremo solo la parte inziale): «Triumphalem hanc Molem, Vetustos Samnitium, Aut aemulantem, aut obumbrantem, Triumphos; Nova inaugurantem Felicitatum Trophaea; Clemente XI. Pontifice Opt. Maximo, Cardinale Ursino cumulatissimo Archiepiscopo, Nicolao Lercario ornatissimo Gubernatore, Nicolaus de Sotiis Caraffa patrit. Beneven.ac Peruginus…», ivi, p. 11. Il centro di Benevento, inutile dirlo, era un autentico tripudio di colori; i modiglioni dei balconi erano adorni di iscrizioni e tutto «era nobilmente addobbato di bellissimi panni di seta». 26Ibidem.
A dare lustro alla città non fu, però, soltanto questo: sul lato del Palazzo attiguo alla chiesa di Santa Caterina27 La chiesa, di costruzione tardomedievale, venne poi inglobata definitivamente nel complesso del Palazzo agli inizi del XX secolo (ndr). venne posizionato, infatti, un secondo arco trionfale sorretto anch’esso da due statue, con a tema la Vigilanza e la Prudenza. Similmente alla prima rappresentazione, furono affisse incisioni al di sotto dei pilastri,28 Sotto la statua della Vigilanza fu posta una citazione attinta dal De Vita Caesarum di Svetonio: «[Unus homo nobis] Vigilando restituit rem», ovvero «un uomo solo, vigilando, ha fatto salvo lo Stato»; per quanto concerne quella della Prudenza, fu affissa una massima di Seneca: «Quidnam est inter Principes optimum, nisi sola Prudentia(?)», ovverosia «qual è la cosa più adeguata per un Principe, se non la prudenza?». in presenza sempre della decorazione degli orsi – con il rispettivo motto – e della più grande iscrizione elogiativa che si ergeva sopra l’arco. Non possediamo, nostro malgrado, alcun riferimento iconografico che possa permetterci di ammirare, anche solo attraverso un dipinto, questi maestosi apparati; ma è lecito supporre che fossero smisuratamente grandiosi, sulla falsariga delle celebrazioni del passato. Il motivo delle virtù cardinali non rappresentava di certo una novità all’interno dei sistemi cerimoniali. A tal riguardo gli esempi non mancano, rifacendoci in particolare all’età moderna-rinascimentale; in occasione, infatti, degli ingressi trionfali dell’Imperatore Carlo V a Milano e del futuro re di Francia Enrico III a Venezia, furono eretti archi di trionfo di pari magnificenza ed eleganza. Riportando brevemente alcuni stralci delle cronache coeve, nel caso di Milano «otto statue stavano alla sommità de l’arco […] le quali statue erano la Prudentia, la Fede, la Constantia, la Giustitia, la stralci delle cronache coeve, nel caso di Milano «otto statue stavano alla sommità de l’arco […] le quali statue erano la Prudentia, la Fede, la Constantia, la Giustitia, la Speranza»,29G. A. ALBICANTE, Trattato dell’intrar in Milano di Carlo V…, Milano, 1541; pagine non numerate. mentre, a proposito di Venezia, «la facciata, che riguardava l’arco, era tutta aperta con uno colonnato di 10 bellissime colonne finte di marmo. […] Le figure erano tutte le virtù attribuite a sua Maestà la prima, la Giustitia […] poi la Prudenza con tre volti, la Temperanza col Bue»,30 M. DELLA CROCE, L’historia della publica et famosa entrata in Vinegia del serenissimo Henrico III re di Francia, et Polonia…, Venezia, 1574, p. 14. e così via. Da come se ne ricava da questi episodi, quello delle virtù cardinali fu un elemento chiaramente distintivo delle feste civico-religiose di età moderna e che, senza dubbio, rimase impresso nell’immaginario collettivo degli organizzatori della cavalcata beneventana. Oltre agli apparati appena descritti, si annovera una seconda particolarità della festa del 1705: in occasione del ricco banchetto, che precedeva l’evento più grande, vi fu infatti anche «pabolo per l’ingegno»; vennero distribuite, a tutti i nobili presenti, le copie di un inedito sonetto composto da tal Bartolomeo Ricceputi, «istruttore dei Sagri Riti», in onore del Santo Patrono da cui la Fiera prendeva il nome.31Da questa composizione trasuda tutta la devozione, e la venerazione, nei riguardi di san Bartolomeo, Patrono della città di Benevento: «E qual filosofia, la bella pace / Vuol che sia al fin della spietata Guerra / Ne sa idearsi unite Guerra e Pace / Quasi habbian fra lor perpetua guerra? / Ecco in Toga Sagrata oggi la Pace / In trionfo guidar Marti di guerra / Ecco i Marti del Sannio à l’Alma Pace / In corteggio recar quanto han di guerra / Questa è la sol gloria tua, Nunzio di pace / Grande Apostol di Dio, fulmin di guerra / Che noi sempre proteggi in guerra e in pace / Tu ne la pace tua vinta hai la guerra / Tu ne la guerra tua moristi in pace / Tu fai veder baciarsi Guerra e Pace», una copia del sonetto è stata allegata dal de Nicastro a conclusione della cronaca de Il Sannio Festeggiante. La tradizionale sfilata dell’Assunta – sin qui analizzata in tutti i suoi numerosi aspetti – fu dunque un evento monumentale, solenne e dai mille significati storico-sociologici. Nel corso di questa analisi sono stati messi in luce, tra i momenti più significativi, i rituali che andavano a scandire le diverse fasi della festa; rituali che facevano tutti parte di un corollario essenziale della vita cittadina – quello della socialità e della convivenza civile – sebbene l’evento in questione fosse molto poco inclusivo nei confronti della plebe beneventana. Un dettaglio, questo, sicuramente importante e che va senz’altro evidenziato. Quale sia stata poi l’eredità di tale sfilata, nei secoli a venire, non è dato saperlo; rispetto, infatti, alla ben più nota cavalcata di Fermo,32A tal riguardo, si segnala: L. MARIANI, La cavalcata dell’Assunta in Fermo, Roma, 1890. la storiografia tace. Non è tuttavia da escludere che, con la crisi dell’antico regime sul finire del Settecento, ma soprattutto con l’abolizione dei diritti feudali durante il Decennio francese, sia venuta meno anche questa costumanza imprescindibilmente aristocratica. Quel che appare certo, ad ogni modo, è che, parafrasando l’acuto de Nicastro, la cavalcata dell’Assunta fu mirabilmente la pompa «più nobile e più maravigliosa ammirata nel Sannio»33G. DE NICASTRO, Il Sannio Festeggiante…, p. 18. e, senza alcun dubbio, la più celebrata dai contemporanei di allora.