
Sulla raccolta del primo trimestre del 1879 della rivista in lingua francese ‘Revue de lāart crĆ©tien’, venne pubblicato un interessante articolo sul āTesoro della Cattedrale di Beneventoā. Nella rivista ā organo della SociĆ©tĆ© de Saint-Jean e diretta da M. Le Chanoine e J. Corblet ā si evidenziava come Ā«uno dei tesori più importanti e rinomati dello Stato Pontificio era senza dubbio quello della metropoli beneventana […] che doveva la sua incomparabile ricchezza e la sua meritata reputazione alle cose preziose che conservava […]Ā».

Uno scrigno di grande valore, che alla data dellāarticolo si presentava, purtroppo, impoverito rispetto alla sua ricchezza originaria, considerato che il Tesoro era stato privato di alcune delle opere più preziose. Il tutto si consumò in occasione del saccheggio che la cittĆ di Benevento subƬ durante la notte tra il 19 e 20 gennaio 1799 per mani delle truppe francesi. Quella notte, circa tremila soldati entrarono in cittĆ allāordine del generale Duhesme.Ā
I militari francesi non vennero accolti nel migliore dei modi e, soprattutto, confermarono la triste fama di spoliatori.Ā Ā Lasciarono la cittĆ il mattino del 20 gennaio, non senza aver depredato il Tesoro della Cattedrale e il Monte dei Pegni. Tutto questo nonostante una forte reazione messa in campo dai beneventani. Il popolo, accortosi dellāaccaduto, Ā«si levò al rumore e col suono delle campane a martello, chiamati gli abitanti dei circonvicini paesi, si fece ad inseguire i francesi che a marcia forzata si inoltravano verso Napoli. Li sopraggiunsero, di fatti, passato Montesarchio, ed ivi venne alla mischia coi medesimi. Sul principio dellāazione numerosi Francesi rimasero vittima del furore dei Beneventani, ma essendo questi armati in massa, senza guida e direzione, rimasero, come ĆØ naturale, sopraffattiĀ».Ā Purtroppo il tesoro sottrattoĀ rimase nelle mani dei vincitori: Ā«per ragioni che non sappiamo – si puntualizza nell’articolo –Ā Ā non fu mai restituito alla chiesa spogliataĀ».Ā
Del sacco del Tesoro della Cattedrale parla anche Meomartini. Descrivendo la ricchezza del Tesoro, in cui spiccavaĀ un Ā«vero gioiello ritrovato per caso, una cassa di bronzo che dovette racchiudere le ceneri di S. BarbatoĀ», in merito ai beni trafugati nel 1799, MeomartiniĀ sottolineava che Ā«di quegli oggetti andati dispersi non si ebbero più notizieĀ».Ā
Tornando allāarticolo di ‘Revue de lāart crĆ©tien’, va detto che esso costituisce una fonte di grande interesse, in quanto descrive il bottino che i francesi portarono via dalle sale del duomo. Una ricostruzione effettuata su quanto riportato nella relazione redatta dal Capitolo, Ā«che merita – si sottolinea – anche gli onori della stampa, per la sua buona e minuziosa descrizioneĀ». Si tratta di una descrizione dettagliata e veritiera, considerato che, parlando dei reperti ancora presenti nelle sale del Tesoro lāautore sottolinea: Ā«Ho verificato, l’inventario alla mano, gli oggetti certo della loro autenticitĆ , rivelata anche dallo stile, dallo stemma e dalle iscrizioniĀ». Aggiungendo: Ā«Anche mutilato, questo tesoro ĆØ ancora molto belloĀ».
Tra le opere presenti descritte spiccava «un braccio di S. Barbato, in un braccio circondato da una corona di rose: la mano tiene la tradizionale vipera. Questo bellissimo reliquiario è una donazione del vescovo Foppa, che occupava la sede de Benevento dal 1643 al 1673».

Ma lāoggetto più importante legato al culto per il santo vescovo vissuto nel VII secolo e nato a Castelvenere risultava tra quelli prelevati dai francesi. Lāelenco delle opere spoliate si apre, infatti, con Ā«un calice e una patena dāoro, su una base di argento fuso (a getto); nel nodo cāĆØ l’ultima cenaĀ Ā con i dodici apostoliĀ». Non si trattava di un calice qualunque, visto che ad esso era Ā«attribuita unāorigine incredibile: si stima ā leggiamo nellāarticolo ā che fosse stato realizzato con lāoro dellāidolo, a forma di vipera, adorato dai beneventani, nel VII secolo; per questo S. Barbato ha la vipera per attributo. Per quanto riguarda il nodo, indica un tempo molto diverso. Questi nodi sono comuni attualmente nel napoletano, dove questo capriccioso ornamento era principalmente coltivato: ho citato altri esemplari alla mostra di Roma del 1870Ā». Quella che viene messa in risalto ĆØ lāimportanza che rivestiva lāopera rubata: Ā«Rappresentare lāultima cena in uno spazio cosƬ piccolo era davvero un tour de force. Ci rammarichiamo della scomparsa di tali opere che interessano sia lāarte che lāarcheologiaĀ».
Non sappiamo se la forte opposizione castelvenerese alla Repubblica del 1799 fosse legata a questo saccheggio. Certo ĆØ che proprio nel paese della Valle Telesina si registrarono le prime (e le più forti) reazioni contro la Repubblica di ispirazione francese. Si trattò di unāopposizione particolarmente ostile, che prese di mira soprattutto il simbolo della Repubblica: lāAlbero della LibertĆ .Ā Ā
Tre giorni dopo il saccheggio del Tesoro del Duomo (23 gennaio) venne proclamata la Repubblica Napoletana e, pochi giorni dopo (12 febbraio), venne pubblicato il Catechismo ufficiale della Repubblica Napoletana, con il compito di educare i sudditi a divenire cittadini. Il simbolo della Repubblica Napoletana venne individuato nellāAlbero della LibertĆ , sulla scia del primo Albero piantato a Parigi (nel 1790) durante la Rivoluzione. Questi Alberi vennero successivamente piantati nella piazza principale di ogni municipio di Francia: rituale che prese a vivere anche in Svizzera e in Italia durante il “triennio giacobino”.
Nel Sannio beneventano (che allora rientrava in buona parte nei confini di Terra di Lavoro), cosƬ come in tante altre realtĆ del Principato Ultra, della Capitanata e del Molise, ĆØ proprio intorno allāAlbero della LibertĆ ā in diversi luoghi più volte piantato e divelto ā che si intrecciò la lotta fra repubblicani e realisti. Nobili, parroci e sacerdoti indirizzarono la furia popolare contro Ā«lāalbero del fanatismoĀ», contro Ā«lāinfame alboreĀ».
Cosa che puntualmente si verificò anche a Castelvenere.
Dagli atti del notaio Domenico Antonio Zotti di Torrecuso, custoditi presso lāArchivio di Stato di Benevento, apprendiamo che in paese a guidare lāopposizione fu il parroco, reverendo Antonio Ventucci, di origini pontesi. Lāarciprete, come raccontano le dichiarazioni rese il 28 luglio 1799 dai castelveneresi Filippo Di Santo e Giambattista Ricci, si mostrò fortemente contrario alla Repubblica, per questo Ā«perseguitato insieme ad altri quattro arcipreti dal reverendo Domenico FerrignoĀ».
Ventucci si rifiutò di far cantare il āTe Deumā in occasione dellāerezione dellāAlbero. E farĆ ancora di più: Ā«Alla fine di febbraio, ricevuta da Benevento, tramite il pontese Gennaro Simeone, copia della lettera del 31 gennaio con cui il sovrano incita alla fedeltĆ e preannuncia il proprio ritorno, la fa conoscere in giro, causando il taglio dellāalbero della libertĆ il 3 marzo. Per questo motivo ĆØ processato dalla municipalitĆ di Guardia Sanframondi e deve poi discolparsi presso il governo di polizia di Napoli. Di nuovo ĆØ arrestato dalla truppa civica di Guardia guidata da Antonio Bruni per aver tolto un ordine repubblicano affisso alla porta della sacrestia, ma riesce a scappare e resta nascosto fino alla vittoria del reĀ».
LāAlbero castelvenerese fu il primo ad essere abbattuto, seguito da quello di Pontelandolfo (24 aprile), Melizzano (25 aprile), San Martino Sannita (30 aprile), Sant’Angelo a Cupolo (1° maggio), Apice (4 maggio), San Giorgio la Molara (23 maggio), Morcone (24 maggio), Terranova e San Giacomo (26 maggio), Torrecuso (31 maggio). Gli abbattimenti si moltiplicarono a partire dalla fine del mese di aprile, quando nelle varie realtĆ iniziarono a diffondersi le notizie dellāavvicinarsi delle truppe reali dalle Puglie.
Come detto, non sappiamo se i due episodi siano collegati. Ma di sicuro, la notizia della detrazione del Calice di San Barbato da parte delle truppe del generale Duhesme avrebbe provocato nei castelveneresi una ferma e tempestiva reazione contro il simbolo dei āvandaliā francesi.
