Nel pensiero comune abbondano idee fuorvianti ed errate sui Rom. Quasi sempre, poi, gli appartenenti a queste comunità vengono etichettati come “nomadi” o (peggio ancora) vengono associati a “clan mafiosi”. Per fortuna, però, ci sono stime e dati coerenti sul numero di Rom e Sinti presenti in Italia, sulla loro origine, la loro lingua e soprattutto il loro nome, che ancora troppo spesso viene identificato nel termine “Zingari”. Partiamo proprio dal nome, allora. Come si chiamano?
Il termine “Zingaro” deriva dal nome di un’antica setta eretica, quella degli Athingani, detti anche Atsingani o Atsinganos. Il nome significa letteralmente “coloro che non vogliono toccare ed essere toccati”. Gli Athingani, infatti, rifiutavano qualsiasi contatto e interazione con le popolazioni estranee, praticavano inoltre la “magia” e conducevano uno stile di vita itinerante. La setta degli Athingani era presente su tutto il territorio dell’Impero bizantino, e quando i Rom arrivarono in quelle stesse zone vennero erroneamente scambiati per loro, con ripercussioni fortemente negative. All’epoca, essere associati agli Athingani significava essere esclusi ed emarginati. L’appellativo, poi, si attaccò addosso alla popolazione romaní senza mai perdere la sua connotazione negativa. Il termine si è evoluto, col tempo, perdendo la A- iniziale, e generando quindi da Atsingano le parole Tsigano, Zigano e infine Zingaro.1G.Spinelli, Rom e Sinti dieci cose che dovresti sapere, Busto Arsizio, People srl, 2022, p. 26 Proprio quest’ultimo termine fu usato dal disegno criminale nazista che si spinse fino alla follia di creare un apposito lager nei campi di sterminio lo Zigeunerlager. Ultimi tra gli ultimi. Il termine corretto è Rom: è un etnonimo, indica cioè il mondo in cui gli stessi Rom si definiscono e ciò in cui si riconoscono. In particolare, la parola Rom indica le comunità rimaste nei Balcani e quelle arrivate in Italia attraverso l’Adriatico.

La prima attestazione nel Sud Italia

Nel Regno di Napoli arrivarono soprattutto famiglie romanès emigranti alla ricerca di una nuova patria cui offrire i prodotti delle loro attività di fabbri, di ferrai, di maniscalchi, di chiodai, di allevatori e commercianti, ma anche di pastori, di braccianti e di imprenditori agricoli. Che fossero emigranti e non girovaghi occasionali si rileva dal fatto che cercarono e trovarono un importante e stabile insediamento soprattutto nelle Province d’Apruzzi (Abruzzo e Molise), dove a tutt’oggi i loro discendenti vivono. I casi di inclusione socio-economica di famiglie romanès sono certificati da numerosi documenti.2Santino Spinelli, Le verità negate. Storia, cultura e tradizioni della popolazione romaní, Milano, Meltemi 2021, p88.

… E in chillo tiempo [de la regina Ioanna seconda]
vide lo duca de Egitto co’ la mogliere e li figlie andare pezzendo per Napole.3Santino Spinelli, Le verità negate. Storia, cultura e tradizioni della popolazione romaní, Milano,Meltemi 2021, p. 88.[

L’autore di queste brevi note di cronaca è Loise de Rosa, noto memorialista di cose napoletane del Quattrocento, e il duca d’Egitto che egli dice di aver visto in giro per Napoli in cerca di elemosine con moglie e figli al seguito al tempo della regina Giovanna II d’Angiò, morta nel 1435, molto probabilmente è il capo di quella stessa comitiva di rom in transito per Bologna e Forlì nell’estate del 1422 che era stata descritta, come si ricorderà, nelle cronache riportate da Ludovico Antonio Muratori. In ogni caso è questa la prima segnalazione accertata della presenza della comunità romanès nella città di Napoli.
I Rom erano presenti in tutti i livelli della società dai mercanti, agli artigiani fino alla corte reale del re Ferrante (Ferdinando I). Fu il caso di tale Lorenzo Perrone, detto anche Cingaro, “coco de la Maistà del Signore Re”.4Fonti aragonesi, XIII, Frammenti dei Registri “Curiae Summariae” degli anni 1463-1499, a cura di C. Vultaggio, Napoli, presso l’Accademia Pontaniana, 1990, p. 233. I suoi servigi furono talmente apprezzati che, oltre a sollevarlo dal pagamento delle imposte:

Re Ferdinando I dona a Lorenzo Perrone, detto Cingaro, suo domestico e cuoco, alcune case del valore di duc[ati] 230 site in Napoli, in piazza S. Giorgio Maggiore in vico o piazza de li Zuruli, facenti parte dei beni di Antonello de Petruciis devoluti alla Regia Corte.5Regesto della Cancelleria Aragonese di Napoli, a cura di J. Mazzoleni, Napoli, L’arte tipografica, 1951, p. 67

È comprensibile l’eventuale sorpresa nell’apprendere alcuni fatti, normali. Come accennato, l’informazione e le credenze comuni sono piene di stereotipi e fake news che con gli anni (secoli), hanno finito per costruire un’immagine del popolo rom menzognera e razzista.
Tornando alla nostra storia…
Napoli era una 1400 era già una grande capitale europea, a cui le nobili case europee guardavano con ammirazione e invidia, grazie anche al mecenatismo dei suoi sovrani. Ma con l’aumentare del prestigio, aumenta anche la mole di persone che confluiva a Napoli, e più in generale del Regno, in cerca di nuove opportunità. Alla crescita tumultuosa della città erano corrisposti, infatti, numerosi e altrettanto inevitabili inconvenienti di ordine pubblico, sanitari, giudiziari, annonari a causa dei quali nel 1560 il viceré duca d’Alcalà chiese addirittura al Sovrano di imporre un blocco all’arrivo di altri forestieri. La sua proposta fu respinta, ma si cominciò intanto a controllare e a disciplinare molte di tali ‘indesirate’ presenze. Non è un caso se proprio gli anni 1559-1585 segnassero un momento di straordinario inasprimento, oltre che di inconsueta confluenza tra l’azione di governo vicereale e l’iniziativa delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti di rom, ebrei, vagabondi e rinnegati, ora irrimediabilmente associati ai caratteri della mobilità sul territorio e, quindi, della ‘pericolosità’ sociale6Il fenomeno della messa al bando delle etnie e delle comunità scomode coinvolse tutta Europa, che ciclicamente nei momenti di crisi risvegliò i suoi sentimenti più tenebrosi, xenofobi e antisemiti. Citando Croce potremmo dire che “ogni storia è storia contemporanea”. 7E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari, cit. p.38.
Molti furono costretti a vivere ai confini della città, in particolare nella zona di Porta Capuana.8Ivi, op.cit. p. 42 Nonostante i decreti e successivi ritorni in città la presenza romanì a Napoli assunse i caratteri della continuità.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, La buona ventura, olio su tela, 1596. Museo del Louvre, Parigi.

L’Agro Telesino

Da secoli le province del Mezzogiorno d’Italia alimentavano dalle regioni orientali del Mediterraneo flussi di immigrazione più o meno contenuti di manodopera servile utilizzata nelle grandi proprietà feudali o arruolata negli eserciti regi e signorili. Ma è via via che ci si addentra nel volgere degli anni tra Quattro e Cinquecento, in concomitanza con l’avvio del trend economico positivo da un lato e con la macroscopica portata della sfida ottomana nel Mediterraneo dall’altro, che il fenomeno divenne più vistoso. Esso andò configurandosi sullo sfondo di un rimescolamento etnico e del simultaneo confronto e scambio con l’Islam e con la Cristianità greca che costituivano anch’essi tratti di lunga durata nella storia socio-antropologica del Mezzogiorno. Fu da allora in ogni caso, e per gli stessi motivi, che gruppi di rom relativamente consistenti cominciarono a premere sulle coste e i confini italiani insieme a migliaia di altri profughi in cerca di una nuova collocazione.9Ivi, cit., p. 47
La prima attestazione che abbiamo sul suolo italiano è a Bologna, 142210Una stele ricorda ancora oggi l’arrivo dei rom in città., da lì seguendo le vie del commercio, passando per Roma, arrivando nel Regno di Napoli. Da Napoli seguirono l’antico tracciato romano della via Appia passava per San Vittore, Teano e Capua, da dove si diramava per la via degli Abruzzi e la via delle Calabrie. La prima attraversando Venafro, Isernia, Sulmona e L’Aquila raggiungeva le vie della transumanza dislocate nel grande sistema formato dagli Abruzzi e dalla Capitanata e nel sistema minore compreso tra il Matese e il Vallo di Diano.
Proprio tra questi itinerari molti rom riuscirono a costruirsi fisse dimore, vivendo di artigianato e pastorizia. Così avvenne alle porte di Napoli, in Terra di Lavoro tra la piana del Volturno e l’Agro telesino, in particolare a Capua dopo il 1445 e tra Cerreto Sannita e S. Lorenzello, dove intorno al 1493 ritroviamo alcuni “gipzi” dediti al commercio e all’allevamento di animali. Così avvenne nell’area che attraverso il passo del Vinchiaturo collegava Napoli alle regioni della transumanza.11E. Novi Chavarria, op.cit., p. 47
In questi luoghi, avvantaggiati forse dalla compresenza con le tradizioni greco-bizantine che vi si conservavano e che le nuove immigrazioni dai Balcani andavano ulteriormente rafforzando, molti di loro si radicarono stabilmente sul territorio dando vita in qualche caso anche a inedite forme di sincretismo religioso.12E. Novi Chavarria, op.cit., p. 48 13Da menzionare l’unicum della città di Jelsi, nel Sannio Molisano. Il nome più antico del paese è Tibiczan, nome di chiara origine bulgara, poi trasformatosi in vari nomi (elencati in ordine cronologico): Gibbiza, Gittia, “Terra Gyptie”, Gilizza, Gelzi, Ielzi, fino ad arrivare al penultimo nome dato durante il Regno delle Due Sicilie, quello di Ielsi.
Un indizio indiretto ma altrettanto sostanziale circa la presenza di gipzi in quegli anni nella zona racchiusa tra la piana del Volturno e l’Agro telesino viene dalla toponomastica. Il 12 ottobre 1493 tra l’Università di Cerreto e il feudatario Giovan Tommaso Carafa II conte di Maddaloni, confermati da Alfonso II d’Aragona il 18 giugno dell’anno successivo e sottoposti nel 1541 a nuova ratifica a seguito della transazione avutasi tra il nuovo conte di Maddaloni Diomede III Carafa e l’Università, speciali norme regolamentarono il pascolo «in curtibus Cornii, giptij, Trocchiae, S. Laurenzelli» vietandone l’accesso ai contadini e ai loro animali domestici e bovini nel periodo compreso tra l’inizio di agosto e la fine di ottobre, quando cioè bisognava raccogliere il foraggio per i mesi invernali.14E. Novi Chavarria, op.cit., p. 53
Si trattava evidentemente di difese padronali adibite al pascolo degli animali dislocate nell’area compresa tra Cerreto Sannita e S. Lorenzello dove i Carafa, in concomitanza con l’incremento del patrimonio zootecnico ovino, l’impianto di lanifici e di un importante polo manifatturiero, furono tra i primi baroni ad avviare nel Regno il passaggio da un sistema di terre aperte a quello di territori “difesi” con palizzate e recinzioni. L’uso del genitivo giptij farebbe pensare allora non solo al passaggio di uno o più rom nella zona, ma anche al ruolo attivo esercitato da almeno uno di loro nella recinzione o nella coltura del terreno che ne portava il nome. Nel secolo successivo famiglie con il cognome Gizzi risultano documentate sia a Cerreto che a S. Lorenzello.15 Cfr. R. Pescitelli, Scias lector … I notai di Cerreto Sannita e le loro memorie (sec. XVII-XIX), in «Archivio storico del Sannio», 1-2, 1992, pp. 157-251. Esse erano stabili sul territorio. Dai dati ancora parziali di una ricerca in corso, rileviamo che tra il 1874 e il 1928 nei comuni di Cusano e S. Lorenzello, e nell’area limitrofa costituita dai centri di Cusano Mutri, Faicchio, Valfortore, Baselice e Campolattaro, risiedevano ancora almeno 54 individui maschi col cognome Gizzi.16E. Novi Chavarria, op.cit., p. 54. Dai sentieri antichi romani, passando per quelli della transumanza la popolazione romanì trovò stanziale sistemazione tra i paesi dell’Agro Telesino fino ad arrivare ai nostri giorni, come tanti abitanti dei paesi limitrofi, nella cittadina di Telese Terme dove è presente una numerosa comunità ormai da decenni.

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Note:
[1] G.Spinelli, Rom e Sinti dieci cose che dovresti sapere, Busto Arsizio, People srl, 2022, pg.26
[2] Santino Spinelli, Le verità negate. Storia, cultura e tradizioni della popolazione romaní, Milano, Meltemi 2021, p. 88.
[3] L. De Rosa, [Lodi Napoli], in A. Altamura, Napoli aragonese nei ricordi di Loise de Rosa, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1971, p. 23.
[4] Fonti aragonesi, XIII, Frammenti dei Registri “Curiae Summariae” degli anni 1463-1499, a cura di C. Vultaggio, Napoli, presso l’Accademia Pontaniana, 1990, p. 233.
[5] Regesto della Cancelleria Aragonese di Napoli, a cura di J. Mazzoleni, Napoli, L’Arte Tipografica, 1951, p. 67.
[6] Il fenomeno della messa al bando delle etnie e delle comunità scomode coinvolse tutta Europa, che ciclicamente nei momenti di crisi risvegliò i suoi sentimenti più tenebrosi, xenofobi e antisemiti. Citando Croce potremmo dire che “ogni storia è storia contemporanea”.
[7] E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari, cit. ,p. 38.
[8] Ivi, op.cit., p. 42.
[9] Ivi, cit., p. 47.
[10] Una stele ricorda ancora oggi l’arrivo dei rom in città.
[11] E. Novi Chavarria, op.cit., p. 47.
[12] E. Novi Chavarria, op.cit., p. 48.
[13] Da menzionare l’unicum della città di Jelsi, nel Sannio Molisano. Il nome più antico del paese è Tibiczan, nome di chiara origine bulgara, poi trasformatosi in vari nomi (elencati in ordine cronologico): Gibbiza, Gittia, “Terra Gyptie”, Gilizza, Gelzi, Ielzi, fino ad arrivare al penultimo nome dato durante il Regno delle Due Sicilie, quello di Ielsi.
[14] E. Novi Chavarria, op.cit., p. 53.
[15] Cfr. R. Pescitelli, Scias lector … I notai di Cerreto Sannita e le loro memorie (sec. XVII-XIX), in «Archivio storico del Sannio», 1-2, 1992, pp. 157-251.
[16] E. Novi Chavarria, op.cit., p. 54.



Alex Gisondi

Nato a Frasso Telesino (BN). Dottore in Storia, Antropologia e Religioni. Scrive per alcune riviste on line, la più famosa Radio100 passi fondata nella storica Radio Aut di Peppino Impastato. Docente e mediatore culturale per UCRI (Unione Comunità Romanès) con cui porta avanti numerosi progetti formativi e culturali nelle scuole. Sempre presente la passione per la ricerca scientifica, sta concludendo il ciclo magistrale di studi presso ‘La Sapienza’ di Roma in ‘Culture e Religioni’.