
Monsignor Modesto Gavazzi (1) nacque a Ferrara in un anno tra il 1555 e il 1558. Entrò tra i Minori Conventuali e, in seguito, fu maestro di teologia nel suo ordine. Come ci ricorda lo storiografo modenese Giovanni Franchini (2), monsignor Gavazzi fu un predicatore rinomato e nella chiesa dei Santi Apostoli in Roma tenne le omelie per il quaresimale del 1591. Dal padre Filippo Gesualdi (3), ministro generale dei Minori Conventuali, fu chiamato a servire il proprio ordine nel capitolo plenario che si tenne nel 1596 a Viterbo; città in cui predicò, in quel torno di tempo, per ventidue volte nella basilica di San Francesco alla Rocca, e una volta sola, nel duomo, in occasione della ricorrenza della Santissima Trinità. E ancora, nella cattedrale viterbese, nel 1656, monsignor Gavazzi declamò eccelsi panegirici nonostante avesse come temibile concorrente padre Alessandro Ferrini da Firenze, francescano celebre per la melliflua facondia. Monsignor Gavazzi era, nel 1596, il reggente dello studio di Ferrara, luogo in cui momentaneamente viveva anche padre Cassandri da Castelfidardo (4), ottimo teologo e fine studioso di retorica sacra. Dopo una breve pausa, nel 1598 lo ritroviamo di nuovo al vertice dello studio teologico ferrarese. Divenuto famoso per l’avvincente retorica, suscitò finanche l’interesse di papa Clemente VIII. Narra, a tal proposito, Giovanni Franchini che quando monsignor Gavazzi presiedeva lo studio ferrarese, capitato in Ferrara il Sommo Pontefice Clemente VIII che, per incendio notturno, partì dal castello estense e si ricoverò nel nostro convento di San Francesco, dove celebrò la mattina seguente, ebbe il Gavazzi occasione di meglio essere conosciuto dal Pontefice, cui già era pervenuta notizia di questo letterato, e volendo decorar la città di qualche onore ecclesiastico il Pontefice nominò il prelato alla guida della Chiesa d’Alife. Pertanto monsignor Gavazzi (5) fu nominato vescovo di Alife il 7 agosto 1598.
Dante Marrocco, raccogliendo informazioni a suo tempo annotate da Gianfrancesco Trutta (6), ci dice che monsignor Gavazzi fu protagonista in un violento scontro di competenze col clero piedimontese. Il 26 febbraio 1600, la Collegiata di Santa Maria Maggiore presentò un ricorso alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, poiché monsignor Gavazzi voleva che la cura delle anime fosse esercitata dal solo arciprete della chiesa e non dall’intero capitolo. Purtroppo, il 21 febbraio 1601, la Congregazione diede torto al presule. Ciononostante la divergenza col clero durò a lungo e, contrariato dall’esito del ricorso, monsignor Gavazzi creò una nuova parrocchia indipendente nel villaggio di San Potito, il 14 aprile 1601, a scapito della Collegiata di Santa Maria Maggiore. Pochi anni dopo, e precisamente nell’agosto 1608, il vescovo morì. Tre relazioni, dal 1600 al 1607 Nel primo resoconto si descrive, con dovizia di particolari, l’apparizione della Madonna nella campagna alifana. Il fatto esercitò un’enorme attrattiva sui fedeli, che accorrevano da ogni dove e profondevano oblazioni per la costruzione di una chiesa in onore di Santa Maria Vergine, a testimonianza della devozione mariana. Purtroppo, gettate le fondamenta, la cappella rimase incompiuta, nonostante il signore della città di Alife (7) custodisse trecento ducati offerti appositamente per la costruzione. Apprendiamo inoltre, e con sorpresa, che la chiesa di Santa Maria della Grazia (8), sempre in Alife, ma fuori le mura, era sostenuta da colonne di marmo e bellissima, ma lasciata così in abbandono tanto da essere conosciuta come l’abitazione dei villani. A Piedimonte invece lo snaturato amministratore del convento benedettino, un certo Simone De Rede, da povero che era divenne ricco, non essendosi mai interessato, in trentotto anni di lavoro, della sorte delle sprovvedute monache, che da sempre vivevano in condizioni precarie. 1600 Diocesi alifana. Il vescovo alifano, per il sesto triennio, visitò le soglie degli Apostoli, esibendo la relazione sullo stato della Chiesa. La cattedrale, per la vetustà, ha bisogno di riparazioni, e solo in essa si conservano tutti i Sacramenti; sebbene siano esistite in Alife molte altre chiese parrocchiali, tuttavia ora ne restano in piedi solo le vestigia. Nella cattedrale c’erano otto canonici, un archidiacono e un primicerio (9), che durante la settimana celebravano soltanto la messa, non ottemperando alle ore canoniche. Così il vescovo, nella visita pastorale, con il consenso del capitolo, ha estinto quattro canonicati, che erano vuoti, e ha conferito i loro redditi alle distribuzioni quotidiane, che erano quasi nulle, in modo che fossero esauditi gli uffici divini. Nell’agro alifano, qualche anno fa, l’immagine di Santa Maria Vergine risplendeva in molti miracoli. Perciò una grandissima quantità di gente vi confluiva da ogni dove e le oblazioni divennero tanto copiose che gli uomini dell’Università (10) di Alife ottennero dalla Chiesa la gestione delle offerte a queste condizioni: che costruissero una cappella a proprie spese e rendessero conto della sua amministrazione al vescovo. In verità, gettate le fondamenta e alzati i muri, la chiesa rimase incompiuta. Trecento ducati delle oblazioni, dunque, sono presso il valido signore della città di Alife (11). Sempre nell’agro alifano esistono altre due chiese della Congregazione dei Celestini: l’una di Santa Maria delle Vergini, ornata con belle pitture ma senza porte e quasi del tutto distrutta, l’altra di Santa Maria della Grazia, ampia, sostenuta da colonne di marmo e di nobile costruzione ma lasciata così in abbandono, tanto che tutti la conoscono come l’abitazione dei villani. In Alife c’è pure un insigne monastero, in cui molti Frati Minori osservanti una volta vivevano insieme e avevano una loro chiesa. Ora in quel luogo abita soltanto un monaco dei Celestini, che prende tutti i redditi della chiesa, oltre diciotto ducati l’anno, e li rende ai suoi superiori. Nessuno pensa alla riparazione della chiesa o del monastero, che tra breve andranno in rovina. Nella Collegiata di Santa Maria Maggiore, della terra di Piedimonte, il capitolo è quasi al completo e la cura delle anime è esercitata dai canonici tutte le settimane. Il vescovo inoltre nella visita generale ha stabilito che la cura delle anime ricada principalmente sull’archipresbitero (12) di quel capitolo e che i suoi coadiutori siano canonici ritenuti idonei, poiché, per antica corruttela, quei canonicati non ottennero curati dalla Sede Apostolica, sebbene i presbiteri si dichiarassero crucciati da quel decreto e ricorressero alla Sacra Congregazione dei Vescovi, che finora non ha emesso alcuna disposizione. Gli stessi canonici di quella chiesa sono impegnati soltanto nella celebrazione delle messe giornaliere, ma non adempiono le ore canoniche, sebbene il loro reddito sia di cinquanta ducati annui; per la qual cosa il vescovo cerca di porre rimedio. Nelle collegiate dell’Annunziata e della Santa Croce, della stessa terra di Piedimonte, in cui si assolve la cura delle anime, il capitolo è quasi al completo. Il vescovo inoltre durante la visita ha ordinato che entro un tempo definito detti capitoli presentino un sacerdote idoneo, proveniente o meno dai medesimi capitoli, cui sia affidata la cura delle anime. Le monache di San Benedetto, della stessa terra di Piedimonte, che sono dodici, ignorano completamente la loro regola e sono prive di tutte le cose necessarie al sostentamento; la maggior parte dei campi, che loro spettano, è occupata da diverse persone, cosicché i redditi delle monache, rimasti nella disponibilità del monastero, sono oltremodo tenui; e i loro terreni sono affidati in enfiteusi, sebbene nessuna cosa sia stata decretata da un mandato apostolico. Sebbene il vescovo, nella visita pastorale, avesse emanato un ed to che stabiliva la decadenza di quell’amministrazione monastica, in modo che le monache rivelassero ciò che di proprietà del monastero era stato affidato in enfiteusi e si comportassero diversamente, soltanto le cose già note furono rivelate e, per giunta, dei beni conventuali non rimane nemmeno un inventario. Un certo Simone De Rede, che è morto improvvisamente l’anno scorso, amministrò come procuratore il patrimonio di quel monastero per trentotto anni, né mai diede conto della sua attività; spesso invitato dalle monache a fare l’inventario dei beni, non volle mai redigerlo; era povero prima dell’amministrazione, dopo la morte, invece, lasciò molti beni ai suoi eredi. Il vescovo chiede che qualcuno tra gli eredi dell’ex amministratore sia costretto a rendere conto della sua gestione patrimoniale. Il monastero è angustissimo: le celle sono fatte di tavole di legno, non ha un refettorio, né stanze separate per le novizie e infine manca di tutte le cose necessarie. Se non fosse per un congruo aiuto offerto dall’Università di Piedimonte per la ricostruzione di quel convento, il vescovo potrebbe pensare di sopprimerlo. Nella chiesa di Prata si conservano tutti i Sacramenti che dai presbiteri sono amministrati ogni settimana. Tuttavia il vescovo, nella visita, ha ordinato che entro un tempo ben definito sia presentato un sacerdote idoneo, cui affidare la cura delle anime. Nella terra di Sant’Angelo esistono cinque chiese parrocchiali: la prima è Santa Maria della Valle, con la cura delle anime esercitata da un archipresbitero, la seconda è San Bartolomeo, quasi distrutta per la vetustà, la terza è San Nicola, distante non poco dal centro abitato di quella terra. Non si conserva nessun Sacramento in queste ultime due chiese, ma i loro parroci sono stati assunti da Santa Maria della Valle, per il bene di tutti i parrocchiani. Queste due chiese, ormai quasi distrutte dall’obsolescenza, non possono essere riparate per mancanza di fondi, così che il vescovo, nella visita pastorale, ha deciso di unirle alla chiesa madre di Santa Maria della Valle, dove si possono celebrare le messe e adempiere gli uffici divini. Il vescovo tuttavia aspetta il mandato della Sacra Congregazione del Concilio. Delle restanti due chiese una è sotto l’invocazione della Santa Croce (13), l’altra di San Felice, quasi distrutta dalla vecchiaia, tanto che il parroco della prima ha preso i Sacramenti per i suoi parrocchiani. Fratello Modesto, vescovo alifano.

1604
La seconda relazione (14) di monsignor Modesto Gavazzi, presentata in Roma il 20 febbraio 1604, si rifà completamente alla prima, quella del 1600, e non aggiunge nulla di nuovo.
1607
La prossima relazione si limita a presentare un semplice fatto di cronaca che si trasforma in un lungo e ingarbugliato conflitto giurisdizionale. La baruffa tra un chierico e un laico, avvenuta a Piedimonte nella piazza di San Domenico, si estende per cerchi concentrici e coinvolge personaggi eminentemente influenti: il vescovo di Alife, il duca di Piedimonte, il governatore regio, il giudice ecclesiastico, fino ad arrivare addirittura a Napoli, dove finalmente è risolta dal viceré, Juan Alonso Pimentel de Herrera (15), che la dirime con saggezza, tenendo conto degli equilibri esistenti, in modo che il potere feudale non invada protervamente il raggio d’azione della Chiesa. Oltre all’aspetto giudiziario di un pervicace scontro tra poteri (messo in evidenza, con numerosi esempi, da Pietro Giannone nell’Istoria civile del Regno di Napoli) comune a tante altre realtà locali, emerge dal resoconto episcopale anche un piccolo contributo per la storiografia piedimontese: veniamo a sapere che in palazzo ducale c’era un carcere feudale, chiamato La Pomposa, sul cui etimo si possono avanzare infinite speculazioni
La relazione sulla diocesi alifana, per il settimo triennio, è stata esibita dal Reverendissimo Signor Vescovo il giorno 5 giugno 1607. Illustrissimi e Reverendissimi Signori Cardinali della Congregazione del Sacro Concilio Tridentino (16). Fratello Modesto, vescovo alifano per grazia di Dio e della Sede Apostolica, in questo settimo triennio, in cui personalmente ha visitato le soglie dei Santi Apostoli, null’altro ha da esporre alla Sacra Congregazione se non un solo fatto che ha ritenuto degno di raccontare alle Vostre Signorie Illustrissime in modo che appaia evidente a quante inquietudini sia sottoposto il vescovo nell’atto di difendere la giurisdizione ecclesiastica. Sappiano dunque che in questo corrente anno 1607, nel mese di febbraio, il chierico Angelo Cini, nipote del mio predecessore Enrico Cini, mentre stava nella grande piazza di San Domenico, in terra di Piedimonte, con parole contumeliose fu provocato a rissa da un certo Girolamo D’Amico. Il chierico Cini senza indugio, volendosi difendere, rispose oltraggiosamente al D’Amico e mentre i due stavano per arrivare alle mani, improvvisamente apparvero cinque guardie armate del duca Gaetani (17), valido signore di questa terra, che catturarono il reverendo nonostante fosse in abito talare e avesse la tonsura. Il chierico Cini (18) voleva essere trasferito davanti al proprio giudice, ma le guardie lo portarono al carcere privato, chiamato La Pomposa, in palazzo ducale, a Piedimonte. Il vescovo, saputo ciò, con una missiva scritta dal prete don Giacomo Petrucci, pretese che il chierico Cini fosse consegnato alla curia episcopale e scomunicò le cinque guardie ducali per l’indebito arresto. Intervenne pure il regio governatore di Piedimonte (19) che rimise il chierico Cini al giudice ecclesiastico competente, insieme a tutti gli atti. I funzionari feudali, uomini del duca Gaetani, reclamarono contro questa decisione e si appellarono al Tribunale della Vicaria (20), in Napoli, esigendo che il Governatore fosse subito punito per aver liberato il chierico Cini e, davanti alla corte, tirarono fuori pure una lettera contro il vescovo. Si costituì in giudizio, in opposizione alla deliberazione del governatore, anche il duca Gaetani in persona, il quale, con tutte le sue forze, voleva che il chierico Cini fosse di nuovo mandato in carcere. Il chierico Cini, sentendosi sotto pressione pur senza aver commesso alcun misfatto, non era libero di muoversi e temeva per la propria salute. Tuttavia il chierico Cini e il governatore non furono puniti, anzi conobbe l’incresciosa storia anche l’illustrissimo ed eccellentissimo signor Viceré, in Napoli, che convenne sulla non liceità dell’arresto del primo e sulla non punibilità del secondo. Dal canto suo il vescovo, per una pacifica convivenza, promise al duca Gaetani che avrebbe implorato, presso il Santo Padre (21), la remissione della scomunica per le cinque predette guardie. Per le altre cose, rimando alla precedente relazione. Fratello Modesto, vescovo.
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Bibliografia
- Dante Marrocco, Il vescovato alifano nel Medio Volturno, Piedimonte Matese ASMV, 1979, p. 36-39. Cfr. Patrick Gauchat, Hierarchia catholica Medii aevi: A pontificatu Clementis VIII (1592) usque ad pontificatum Alexandri VII (1667), Ed. Monasterii Regensberg, 1935, volume 4, p. 78. Monsignor Gavazzi fu autore di alcune pubblicazioni di carattere teologico. Cfr. a) Modesto Gavazzi, Opuscula theologica patris magistri Modestii Gauatii Ferrariens, Totius Ord. Minor. … procuratoris generalis … Romæ typis Ludouici Grignani, 1650. b) Modesto Gavazzi, De macula peccati permanentis personalis, et originalis geminata disputatio theologica auctore fratre Modesto Gauatio … Bononiæ typis Baptistæ Ferronij, 1642. c) Modesto Gavazzi e Ioannes Duns Scotus, De venerabili Eucharistiæ sacramento ac sacrosanctæ missæ sacrificio disputationes theologicæ ad mentem Ioannis Duns Scoti authore f. Modesto Gauatio ferrariensi … Romæ typis HH. Corbelletti, 1656.
- Giovanni Franchini, Bibliosofia, e memorie letterarie di scrittori francescani conuentuali ch’hanno scritto dopo l’anno 1585 raccolte da f. Gioanni Franchini da’ Modena dello stess’ordine … In Modena per gli eredi Soliani stampatori duc., 1693, p. 503-504.
- Gesualdi Filippo, in Dizionario Biografico degli Italiani – Treccani, volume 53 (2000), voce scritta da Dario Bussolini
- Credo che Giovanni Bianchini si riferisca a padre Agostino Cassandri da Castelfidardo, chiarissimo maestro di retorica sacra, eloquentissimo panegirista e prolifico scrittore. Cfr. Filippo Vecchietti e Tommaso Moro, Biblioteca picena o sia notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni. Tomo primo [-quinto] … Osimo presso Domenicantonio Quercetti stamp. vescv. e pubb., 1790, p. 92-93. Cfr. pure il Dizionario Biografico degli Italiani – Treccani (volume 45, edito nel 1995) alla voce Fausti, Bonifazio, detto il Montolmo, scritta da Rosario Contarino, da cui apprendiamo che il Montolmo approfondì le nozioni di oratoria sacra a Castelfidardo presso Agostino Cassandri (che era Padre nell’Ordine dei Frati Minori).
- Michele Mancino riporta che: Al Vescovo di Alife, che in quegli anni era il minore conventuale Modesto Gavazzi, theologiae magister, richiesto dai governatori dell’Annunziata [in Napoli] per un ciclo di prediche, il vicario generale è invitato a fare ogni onore e cortesia, quando si presenterà per il permesso. Cfr. Michele Mancino, Licentia confitendi: selezione e controllo dei confessori a Napoli in età moderna, Roma Edizioni di storia e letteratura, 2000, p. 133. Ciò dimostra che la fama di predicatore di monsignor Gavazzi era diffusa sull’intero territorio nazionale.
- Gianfrancesco Trutta (Piedimonte Matese, 1699-1786) fu arciprete (nella collegiata piedimontese di Santa Maria Maggiore), archeologo e storiografo erudito. Cfr. Dante Marrocco, Il vescovato alifano nel Medio Volturno, Piedimonte Matese ASMV, 1979, p. 253. Cfr. Gianfrancesco Trutta, Cronaca di quattro secoli. (Nella Guida Turistica di Piedimonte Matese, scritta da Iolanda D’Angelo e Fabio Brandi, Piedimonte Matese Effatà Società Cooperativa, 2015, a pagina 124, si legge che Dante Marrocco ritrovò tale opera [Cronaca di quattro secoli] in un volume manoscritto di Santa Maria Maggiore, come copia tarda, datata 1841, del canonico Don Giuseppe Sanillo). L’apografo di don Giuseppe Sanillo (San Potito, 28 maggio 1768 – San Potito, 21 luglio 1846), copiato in modo fededegno da Dante Marrocco, si può leggere online, nella trascrizione di Michele Giugliano (che, fondatamente, pone la data di redazione della Cronaca di Gianfrancesco Trutta al 1781 e ne ricostruisce la storia editoriale): http://asmvpiedimonte.altervista.org/Trutta/Trutta_cronaca_4_sec_.html.
- È da ipotizzare, molto verosimilmente, che la chiesa stava per essere costruita in un luogo non distante dall’attuale cappella di Santa Maria delle Grazie (o della Grazia), lungo la strada che dal santuario porta a Piedimonte, dove si trova ancora una piccola cappella votiva, segno tangibile di un’antica venerazione mariana. Sul concetto di santità nella Controriforma e in Età Barocca, Cfr. Miguel Gotor, Chiesa e santità nell’Italia moderna, Roma GLF, 2004. Per quanto riguarda il signore di Alife, detentore dei trecento ducati, monsignor Gavazzi si riferisce sicuramente a Fabio Barone. Cfr. Dante Marrocco, I governatori di Alife dal 1585 al 1687, Capua Edizioni Salvi, 1967, p. 7. Cfr. Giovanni Vincenzo Ciarlanti, Memorie istoriche del Sannio chiamato oggi Principato Ultra, contrada di Molisi, e parte di Terra di Lavoro, province del regno di Napoli, Campobasso Onofrio Nuzzi, 1823, volume V, in cui, a pagina 65, si legge che: il feudo di Alife fu venduto a Violante delle Castelle, per ducati 21500. Dopo la sua morte, nel 1584, ne fu investito il suo figliuolo, Fabio Barone, e poi Giulio [Barone], suo fratello, che lo vendé a Don Francesco Gaetani, Duca di Laurenzana e Signore di Piedimonte.
- L’attrazione che esercita il fascino delle rovine è descritta anche da Cristopher Woodward in un libro di cui raccomando caldamente la lettura, per conoscere, e scoprire, l’Italia com’era, da un punto di vista urbanistico e architettonico. Cfr. Christopher Woodward, Tra le rovine: un viaggio attraverso la storia, l’arte e la letteratura, Parma Ugo Guanda, 2008
- Il primicerio era l’ecclesiastico che vigilava e presiedeva i suddiaconi e gli altri chierici minori nel servizio divino.
- Amministrazione municipale.
- Ci si riferisce o a Fabio o a Giulio Barone, feudatari di Alife, prima della famiglia Gaetani di Larenzana.
- Arciprete.
- Sulla chiesa parrocchiale della Santa Croce, in Raviscanina, si veda: Antonio Mario Napoletano, Ecclesia Sancti Angeli de Ravecanina: devozioni arte e documenti di Raviscanina e Sant’Angelo d’Alife, Piedimonte Matese Ikona, 2005.
- ASV, Congr. Concilio, Relat. Dioec. 32A, 21r.-22v.
- Juan Alonso Pimentel de Herrera fu Viceré di Napoli dal 6 aprile 1603 all’undici luglio 1610.
- Ho riassunto con scrupolo questa relazione per renderla fruibile al lettore
- Il duca Alfonso I Gaetani d’Aragona fu Signore di Piedimonte dal 1606 al 1618. Cfr. Dante Marrocco, Piedimonte Matese: storia e attualità, Piedimonte Matese, Edizioni ASMV, 1980, p. 77.
- Il chierico Don Angelo Cini, invocando il privilegium fori [privilegio del foro], pretendeva che la competenza penale e civile dell’accaduto spettasse esclusivamente al tribunale ecclesiastico della propria diocesi. Cfr. Antonio Banfi, Habent illi iudices suos: studi sull’esclusività della giurisdizione ecclesiastica e sulle origini del privilegium fori in diritto romano e bizantino, Milano A. Giuffrè, 2005.
- Il governatore di Piedimonte, nel mese di febbraio 1607, era Maurizio Apicella. Cfr. Raffaello Marrocco, Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, Piedimonte d’Alife La Bodoniana, 1926, p. 95.
- Il Tribunale, o Gran Corte, della Vicaria, in Napoli, istituito dal Re Carlo II d’Angiò, era la prima magistratura d’appello di tutte le corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili. Cfr. Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, tomo IV, 1821, p. 279-282
- Papa Paolo V, nato Camillo Borghese (Roma, 17 settembre 1552 – Roma, 28 gennaio 1621), è stato sovrano dello Stato Pontificio dal 1605 alla morte. Cfr. Ludwig Von Pastor, Storia dei Papi nel periodo della restaurazione cattolica e della Guerra dei Trent’anni: Leone XI e Paolo V (1605-1621), volume 12, Roma, Desclèe, 1930, p. 737.