Le fonti storiche indicano l’anno Mille come il periodo di maggior influenza e dominazione normanna nell’Italia meridionale. Devoti dell’arcangelo Michele, il cui culto non si esaurì al semplice pellegrinaggio al ‘santuario dell’Angelo’ sul Gargano; degni successori dei fieri antenati Vichinghi -di cui però avevano tradito gli antichi culti pagani e si erano convertiti al cristianesimo-; protetti dalla testa ai piedi dall’hausberk -una cotta intessuta con minuscoli anelli di ferro a mo’ di armatura-, i Normanni -provenienti dalla non lontana terra di Normandia, ed eredi del vichingo Hrölfr o Rollo(ne) che ne costituì un Ducato (detto di Saint-Ouen o Rouen) in concessione del marchese di Neustria e re Roberto (911)- videro, nelle lotte intestine tra i vari potentati locali del Mezzogiorno, il mezzo per penetrare senza notevole sforzo in un territorio ricco in bellezza e fertilità.

Qualche studioso addirittura riferisce che all’aiuto ai Salernitani contro i numerosi assalti dei Saraceni, i Normanni presero l’impegno -non privo di interesse- di combattere anche i Bizantini[1]. Vero è che, ai freddi lidi d’Inghilterra e Irlanda e le aride dune della Tunisia o dell’Impero Romano d’Oriente, le ‘terre di mezzo’ del Mezzogiorno dovettero sembrare il luogo più appropriato per assecondare il loro desiderio di conquista. L’occasione propizia nacque dall’incontro del signore longobardo Melo di Bari[2] con alcuni pellegrini Normanni -quasi sicuramente nelle terre del Gargano- di ritorno dalla Terra Santa. L’aiuto proficuo dei ‘coloni del nord-ovest’ servì a costruire anche sulle rovine latine e longobarde della Longombardia minor.

Una nuova configurazione politica e geografica del territorio ebbe come conseguenza un più diffuso scambio di rapporti commerciali con i popoli islamici, ebraici e orientali. Il Mezzogiorno sembrò il luogo ideale per favorire più interessanti rapporti economici con i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo; le zone interne, appenniniche -non meno ricche economicamente-, diventarono luoghi di scambio commerciale grazie ad un’impostazione diversa della rete stradale ed una nuova vitalità sociale e culturale.

Nonostante un fiscalismo oppressivo, che non fermò l’impulso delle attività economiche, gli insediamenti Normanni del X secolo sul territorio campano privilegiarono lo sviluppo agricolo, i dissodamenti di nuove terre -fino ad allora incolte o boschive-. 

I nuovi nuclei abitati -sorti intorno al castello del signore normanno (o ‘Rocca’)- nati dalla cenere di precedenti fortificazioni longobarde e bizantine rinsaldarono gli equilibri economici dei nuovi proprietari. Le colture e i prodotti del lavoro dei contadini favorirono l’autonomia dei signori, ma asservirono la manodopera terriera.

Il Ducato di Benevento garantì lo sviluppo di piccoli centri abitati. Non era difficile trovare, intorno alle dimore di campagna, orti, vigne, fertili pascoli e moderni allestimenti irrigui -la cui costruzione servì anche successivamente, in età normanna-. Alla concimazione dei terreni, seguiva il lavoro manuale con rudimentali zappe e vanghe; di rado, un piccolo aiuto logistico era dato da bestie da soma o buoi -per lo più usati per dissodare ampie zone incolte o nel trasporto di legname-.

Il Ducato di Benevento -della seconda metà del IX secolo- aveva perso i principati di Capua e Salerno, che già da tempo avevano riconosciuto la loro autonomia. L’ulteriore guerra tra Radelchi e Siconolfo, narrata in modo minuzioso da Erchempertnella Historia Langobardorum Beneventanorum, contribuì dall’anno 849 alla divisione del Ducato nei due Principati di Benevento e Salerno. Sempre intorno all’842-849, Capua si staccò da Salerno e divenne principato indipendente (900). Se Pandolfo I Capo di Ferro (961-981), contribuì a riunire i tre principati, più a sud i Bizantini si radunarono nel catepanato di Lucania, Puglia e Calabria con capitale Bari. 

Eppure i territori interni non furono esenti da razzie dei Saraceni: se nel secolo IX, lunghe lotte intestine portarono al saccheggio di intere città -Miseno, Formia, Fondi e Capua-, ora, i Saraceni stanziati in Puglia facevano terra bruciata di Telese, Alife e Benevento, la capitale del Ducato. 

Del resto bisognerà aspettare Ruggero II[3] (1130), per mettere un po’ d’ordine nei vari territori -non senza devastazioni-. Fedele al papa, ma di più a se stesso, Ruggero II, diede il via ad una riforma legislativa senza precedenti, valida per l’intero Regno. 

A Ruggero II, infatti –laddove non si hanno prove certe in tal senso- vanno attribuite anche le “Assise di Ariano”, un vasto codex legislativo in due manoscritti: il Codice Vaticano 8782 e il Codice Cassinese 468. 

Il contenuto delle Assise, fu moderno per minuzia di concetti giuridici e per la solerzia di provvedimenti in materia penale. Non a caso, per ricchezza di contenuti Federico II di Svevia (1198-1250) ne trasferì l’intero testo nel Liber Augustalis (1231)[4]. La legislazione di Ruggero II -passando attraverso chiare norme di diritto pubblico e privato- impose il principio della volontà sovrana quale fonte unica del diritto della comunità, e ridusse il diritto longobardo e bizantino a fonte normativa sussidiaria, destinata a sopperire ad eventuali lacune della legge regia.

Interessante è il tarì, una moneta che esprime perfettamente la sintesi delle culture presenti nel Regno normanno:

Nel recto: il nome di re Ruggero e il titolo in lingua araba: al-malik Rujaral-mu’azzamal – mu’tazzbi – illah («re Ruggero, venerando e potente per grazia di Dio»); nel verso: una croce latina con la scritta in greco IC XC NI KA («Gesù Cristo vince»).

Intanto nella valle Telesina[5], I Sanframondi dominavano -o sarebbe meglio dire, difendevano- le terre della Contea: ad Ugo Conte di Telese era succeduta la famiglia dei normanni Rainulfo, che dimostrò di volere una certa quiete economica per la sua gente; Ruggero II adirato contro il cognato Rainulfo ne invase le terre, occupò Castel Ponte, mise ferro e fuoco Limata[6] e si spinse fino a Telese[7]; solo nel 1303 Barthèlemy Sighenoulf, con l’approvazione di Re Carlo II, divenne signore e Conte di Telese[8].
In sintesi, sono molteplici i signori coinvolti nella successione al feudo di Telese[9]: nel 1229, la civitas si arrende all’esercito del Legato Pontificio -al comando del cardinale Colonna-, nelle lotte tra Federico II e la Chiesa; tra il 1231 e 1260 il feudo è guidato da Pietro da S. Germano e Giovanni di Lauro; nel conflitto tra Svevi e Angioini, il territorio telesino si schiera con Carlo I d’Angiò -che intanto aveva sconfitto Manfredi a Benevento (1266) e Corradino vicino Tagliacozzo (1268)-; il feudo telesino è affidato a Guglielmo di Vaudemont ed è visitato dallo stesso Carlo I d’Angiò nel 1263 e nel 1278, tra il 28 e 29 giugno.
Di qui in poi -dopo un vuoto temporale di qualche decennio, ove si ipotizza che metà del feudo sia passato da Henrichellus Passerellus a Henricus de Girardo insieme a Pietro Baheraun in Pugliano- si rintracciano: Pietro Gaetano Della Ratta dei Conti di Caserta (1334) e Francesco Monsorio in Telese, nel Casale di S. Salvatore e Casal-Venere; in linea di successione a Solopaca si affermano ancora i Monsorio e i (gens) Grimaldi.

All’Abbazia di S. Salvatore intanto tra il X secolo e il XV, l’onere di rappresentare il fulcro della vita religiosa e politica della valle telesina. Di lì passò Sant’Anselmo, che non disdegnò meditare nei pressi del ‘pozzo’, tutt’ora ben conservato. 

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[1] Molti di essi si stabilirono a Salerno, come mercenari, con guida il principe Guaimario III; altri, si mossero più a sud, in Puglia, e parteciparono agli scontri contro i Bizantini. Si ricordano i fratelli d’Altavilla, figli di Tancredi, e il clan dei Drengot-Quarrel, con a capo i fratelli Osmondo e Rainulfo. Cfr. Delogu P., I Normanni in Italia, ed. Liguori, Napoli, 1984, pag. 20.

[2] Cfr. Pio B., Melo da Bari, in Aa.Vv., Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, Roma, vol. 73, pp. 45-6.

[3] Cfr. Aubé P., Ruggero II. Re di Sicilia, Calabria e Puglia. Un normanno nel Mediterraneo, Newton & Compton Editori, Roma 2002.

[4] Tramontana S., Il Mezzogiorno Medievale. Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi nei secoli XIXV, ed. Carocci, Roma 2000.

[5] Meomartini A., I comuni della provincia di Benevento, De Martini, 1970, pag. 275.

[6] Alessandro Telesino, De Rebus Gestis Rogerii Siciliae Regis, Lib. II, cap. LXI, pag. 125.

[7] Lettera di Guidobaldo, abbate di Montecassino a Lotario imperatore, in Ciarlanti V., Memorie istoriche del Sannio, Nuzzi, Campobasso, II, pag. 296.

[8] Per accuse di vario genere, tra cui l’aver peccato di adulterio con Caterina moglie di Filippo d’Angiò, fu allontanato dai possedimenti di Telese e il territorio dichiarato civitas regia da re Roberto. Cfr. Marrocco D., Quaternus redditum Civitatis Thelesiae del 1426, in Annuario ASMV, Piedimonte Matese, 1977 pag. 149.

[9] Vigliotti N., Telesia… Telese Terme. Due Millenni, tipolitografia don Bosco, Telese, 1993 pp. 108-9.



Giovanni Giletta

Nasce a Telese Terme nel 1970. Allievo del filosofo Massimo Achille Bonfantini, si laurea in Semiotica e Filosofia del Linguaggio presso l'Università degli Studi l'Orientale di Napoli. Ha poi conseguito la Scuola di Specializzazione post laurea in Psicologia dello Sviluppo e dell'Educazione presso il Consorzio For.Com. La Sapienza. Dedica le sue ricerche allo studio della filosofia e della psicologia dell'inconscio. Ha pubblicato "Cento petali e una rosa" (Natan, 2016), "Filosofia hegeliana e religione. Osservazioni su Sebastiano Maturi" (Natan, 2017) e "Nel gioco di un'incerta reciprocità: Gregory Bateson e la teoria del doppio legame" (Ed. del Faro, 2020).