Angelo Romano nato a Ponte il 22 aprile 1915 da Salvatore e da Teresa Meola.

Quando ero bambino Angelo frequentava casa nostra perché era amico di mio nonno. Durante le sue visite avevo avuto modo di ascoltare il racconto delle vicende da lui vissute durante la Seconda guerra mondiale. Come tutti i bambini fui particolarmente colpito e affascinato dal suo racconto. Poi com’è naturale che sia, crescendo e diradandosi sempre più le sue visite, il racconto fu archiviato in qualche remoto angolo della mia mente. A distanza di molti anni, quando il signor Angelo era già morto da tempo, mi capitò di vedere il bellissimo film “Il Mandolino del Capitano Corelli”, con Nicolas Cage e Penelope Cruz. Improvvisamente mi tornò alla mente il racconto del signor Angelo e mi colpì molto la similitudine tra le due storie.

Angelo Romano, il 25 aprile 1935, all’età di venti anni si arruolò volontario con la qualifica di artigliere. Il 3 luglio dello stesso anno fu promosso caporale. 
Il I gennaio del 1937 rinunciò al grado di caporale per essere ammesso al corso per allievi sottufficiali, uscendone con il grado di sergente.
Il 2 agosto 1939 fu assegnato alla divisione “Acqui”, con il grado di sergente maggiore. 
Nell’ottobre del 1940 Mussolini decise di invadere la Grecia anche per dimostrare e affermare l’autonomia decisionale dell’Italia fascista nei confronti dell’alleato tedesco. 

L’esercito italiano, partendo dalle proprie basi in Albania, il 28 ottobre mosse verso la regione dell’Epiro in Grecia. L’offensiva, malamente pianificata, con forze numericamente insufficienti e scarsamente equipaggiate, si rivelò da subito un disastro. Le forze greche prima bloccarono l’offensiva nemica e poi, appoggiate dall’aviazione britannica, passarono al contrattacco respingendo l’esercito italiano oltre la frontiera e continuando ad avanzare in profondità in territorio albanese. La guerra si trascinò in una situazione di stallo fino all’aprile del 1941 quando l’esercito tedesco intervenne nei Balcani, e con un’azione fulminea, invase la Jugoslavia e la Grecia costringendole alla resa. 
Intanto, tra il 6 e il 19 dicembre 1940 la divisione “Acqui” fu imbarcata a Brindisi per essere trasferita e schierata sul fronte greco-albanese. 
Terminata la campagna di Grecia, l’intera divisione Acqui più alcuni reparti aggregati, per un totale di circa 13.000 uomini, fu dislocata, con compiti di presidio, nelle isole Ionie. In particolare, 11.500 soldati furono destinati a Cefalonia, 800 a Corfù, 400 a Zante e 70 ad Itaca.

A differenza dei soldati tedeschi, che erano malvisti, gli italiani, dopo un iniziale periodo di diffidenza, riuscirono a instaurare con la popolazione locale un rapporto di fiducia e di pacifica convivenza. 

Angelo raccontava che nel suo caso riuscì a stabilire un buon rapporto con i greci perché essendo egli sergente maggiore addetto alla fureria e al magazzino, quando poteva, forniva loro le cose di cui avevano più bisogno, soprattutto medicinali.

Dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, mentre le altre divisioni italiane dislocate in Grecia, abbandonate a sé stesse e senza ordini, si arresero ai tedeschi, la divisione “Acqui” decise di resistere. Il comandante, generale Antonio Gandin, inviò pressanti richieste di aiuto totalmente ignorate dallo Stato maggiore italiano che si trovava a Bari. L’unico a rispondere fu l’ammiraglio Galati, comandante della piazza di Brindisi, che dispose l’invio di due torpediniere con viveri e munizioni. Il comando alleato, avuta notizia della loro partenza ordinò perentoriamente di richiamare le navi che furono fatte rientrare.

Dopo diversi giorni di combattimento, esaurite le munizioni e senza nessun aiuto dagli alleati, il 21 settembre il comandante, generale Gandin, decise di arrendersi. I tedeschi, senza tener assolutamente conto della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, iniziarono il massacro dei soldati italiani, passato alla storia come “Eccidio di Cefalonia”.

Il 24 settembre gli ufficiali italiani, che erano rinchiusi nelle prigioni di Argostoli, furono portati nel cortile di una casetta (passata alla storia come “La casetta rossa”) e a gruppi di quattro-otto per volta furono fucilati. Le esecuzioni durarono l’intera mattinata fino a quando i tedeschi, stanchi di uccidere, concessero la grazia agli ultimi 36 ufficiali rimasti. La notte stessa obbligarono 17 marinai italiani prigionieri a portare i corpi fino al porto dove furono caricati su degli zatteroni e una volta al largo, furono buttati a mare dopo essere stati appesantiti con filo spinato e pietre. I marinai furono poi uccisi a loro volta per non lasciare testimoni. 

Migliore sorte non ebbero le migliaia di soldati fatti prigionieri nelle isole greche. Il loro trasferimento verso la Germania si trasformò in un’ecatombe per i numerosi naufragi delle navi utilizzate per il loro trasporto. 

Il piroscafo “Oria” partito da Rodi, il pomeriggio dell’11 febbraio 1944 con a bordo più di 4000 prigionieri italiani, durante la notte successiva, a causa di una violenta tempesta, affondò presso Capo Sounion. Degli oltre 4000 soldati italiani presenti a bordo se ne salvarono meno di 50. 

La motonave “Sinfra”, salpò da Creta la sera del 19 ottobre 1943 con circa 3000 persone a bordo. La stessa notte fu attaccata da aerei alleati le cui bombe provocarono lo scoppio del carico di munizioni presente nella stiva e il successivo incendio della nave. Dei 2389 prigionieri italiani e greci presenti a bordo ne sopravvissero solo 539.

Il 23 settembre due cacciatorpediniere della marina inglese attaccarono e affondarono il piroscafo “Gaetano Donizetti” provocando la morte di circa 1800 prigionieri italiani. Il 28 settembre, dopo aver urtato una mina, sganciata da un aereo inglese, affondò il piroscafo tedesco “Ardena”, dei circa 840 soldati italiani a bordo ne morirono 720. La mattina del 10 ottobre 1943 la motonave “Mario Rosselli”, si trovava a Corfù dove aveva quasi terminato di imbarcare i circa 5500 soldati italiani che erano stati catturati dai tedeschi negli scontri dei giorni precedenti. Alle 7,15 fu attaccata da un aereo alleato il quale sganciò una bomba che cadde direttamente nella stiva, la successiva esplosione provocò morte di 1302 militari italiani. 

Il 13 ottobre1943 la “Maria Amalia” fu attaccata da un sommergibile inglese nei pressi di Argostoli, dei circa 900 militari italiani a bordo se ne salvarono solo 361. L’8 febbraio 1944, presso la Baia di Souda (isola di Creta) il piroscafo tedesco “Petrella”, nonostante riportasse in evidenza, sulle fiancate, la sigla POW (Prisoners Of War) fu attaccato dal sommergibile inglese “Sportsman”. Degli oltre 3100 prigionieri italiani se ne salvarono solo circa 430.

L’otto settembre Angelo si trovava sull’isola di Cefalonia e quindi con i suoi commilitoni partecipò alla rivolta contro le truppe tedesche. Al momento della resa fu catturato e destinato a essere fucilato.

Angelo Romano

Angelo raccontava che al momento dell’esecuzione vide passare tra sé e il soldato che gli stava di lato un’ombra per cui istintivamente si spostò. Questo fece si che la raffica di mitra, sparata dai tedeschi, lo raggiungesse solo sul lato destro del corpo colpendolo al braccio, all’addome e alla gamba, facendolo cadere al suolo svenuto. Il colpo all’addome, che poteva essere quello letale, divenne miracolosamente innocuo perché egli portava a tracolla una borsetta di cuoio con una fibbia di metallo che in qualche modo attutì in parte il colpo. Nella piccola borsetta oltre a pochi effetti personali vi era anche una banconota greca che rimase intrisa del suo sangue e che ancora oggi è conservata dal figlio. Rimanendo sepolto sotto i corpi dei suoi sventurati commilitoni fu creduto morto, per cui il sodato incaricato di sparargli il colpo di grazia si limitò a sfilargli e rubargli l’orologio che aveva al polso. Successivamente, insieme ai corpi degli altri compagni, fu gettato in una fossa comune. 
Nel frattempo, era iniziato a piovere per cui i tedeschi, terminato il loro compito si allontanarono. Fortunatamente i colpi non avevano raggiunto organi vitali, e quando i greci, incaricati della sepoltura, si avvicinarono, sentendo dei flebili lamenti, si accorsero che, seppure ferito gravemente, Angelo era ancora vivo e, avendolo riconosciuto, lo prelevarono e lo nascosero nella torre di un campanile. A questo punto entrò in scena una giovane donna del posto di nome Veneranda, figlia del medico del paese. Veneranda e il padre, a rischio della propria vita, nascosero Angelo nel solaio della loro casa e, con i pochi mezzi a disposizione, lo curarono, salvandogli la vita.
Come mi ha raccontato il figlio Salvatore, Veneranda s’innamorò perdutamente di Angelo al punto di chiedergli di sposarla. Angelo però le confessò che lui era già sposato e per rendere più credibile la cosa le mostrò la foto di un bambino che, in realtà, era il figlio di suo fratello Domenico. 

Angelo rimase nascosto in casa di Veneranda, molto probabilmente, fino al 14 giugno 1944. Infatti, dal 15 giugno ricominciano le annotazioni sul suo foglio matricolare e da questa data risulta ricoverato presso un ospedale greco per le ferite riportate. Dimesso dall’ospedale in data 11 novembre, fu rimpatriato con una nave inglese e il 13 novembre sbarcato a Taranto. 
Una volta in Italia rimase in contatto epistolare con Veneranda e la sua famiglia fino a quando, qualche anno dopo, non ricevendo più risposte alle sue lettere venne a sapere che la casa della sua salvatrice e parte del paese erano stati colpiti da un terremoto. 
Angelo Romano a seguito delle gravi ferite riportate fu riconosciuto invalido di guerra e assunto dalle Ferrovie dello Stato, prestando servizio, fino alla pensione, presso l’ambulatorio medico della stazione di Benevento. 

Nello scrivere questa storia mi sono avvalso, come detto, dei miei ricordi d’infanzia, che sono stati confermati e arricchiti, anche con delle foto, dal figlio di Angelo, Salvatore, che attualmente, dopo aver svolto la professione di medico, vive con la propria famiglia a Termoli.
Le notizie relative alla vita militare di Angelo, tratte dal suo foglio matricolare, mi sono state fornite dall’amico Carlo Guglielmucci che le ha riportate nel suo libro, di prossima pubblicazione, dal titolo “PRESENTE! Storia dei caduti pontesi nei due conflitti mondiali”. 

(P.S. Consiglio, a tutti quelli che ancora non lo hanno fatto, di vedere il film “Il mandolino del capitano Corelli”, vi assicuro che ne vale la pena).



Giuseppe Corbo

Nato a Ponte, dove risiede. Dipendente del gruppo Ferrovie dello Stato. Cultore di storia locale con particolare attenzione al periodo medievale. Ha pubblicato "Ponte tra Cronaca e Storia", "Domenico Ocone, quarant'anni di storia pontese...", "Le Vie di Ponte tra Storia e Leggenda". Collabora con varie associazioni culturali.