
In alcuni documenti medievali i Monsorio, feudatari del Casale di San Salvatore, di Castel Venere e di Pugliano, vengono detti anche Monsolini. Questa nobile casata, originaria della Provenza, giunse nell’Italia meridionale al seguito degli angioini e – per volere di Roberto d’Angiò – divenne proprietaria di numerosi possedimenti.
Il suo capostipite, Bernardo Monsorio, è ricordato negli annali araldici come “gran capitano a Roma”. Alla sua morte, il figlio Francesco ebbe la riconferma dei feudi dalla regina Giovanna I d’Angiò, una delle prima regine regnanti d’Europa (1327-1382).
La famiglia Monsorio rimase sempre fedele alla corona e, per tale motivo, continuò ad ottenerne in cambio benefici ed onorificenze. Così Rinaldo, figlio di Francesco, ampliò i propri possedimenti ottenendo dalla regina Giovanna II (1371-1435) ulteriori feudi, tra cui il Casale di San Salvatore dove venne costruito un castello che i Monsorio destinarono a propria dimora. Un ulteriore salto di qualità lo fece Giovanni, figlio di Rinaldo che –prendendo in moglie Mariella Carafa, appartenente ad una delle famiglie nobili più ricche del napoletano – aumentò considerevolmente il potere economico della famiglia.1Per un’accurata descrizione della famiglia Monsorio si rimanda a testi specifici: S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Stampa A. Massi, Firenze, 1651, pag. 47 e segg.; B. Candida Gonzaga, Memoria delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, 1875, ristampa Forni, Bologna, 1965; S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Ed. G.B. Cappello, Napoli, 1610, pag. 723.
A seguito del fausto matrimonio divenne maggiordomo di Ferdinando I d’Aragona e nel 1479 ottenne da re – in dono perpetuo per sé e per i propri figli – il feudo di Torello ed acquistò a spese proprie il feudo di Faicchio con i suoi Casali, Massa Inferiore e la quarta parte del feudo di Solopaca, con un cospicuo investimento di oltre 4500 ducati.2Secondo il Petrucci la cifra esatta era di quattromila ducati. Sempre secondo tale fonte, la famiglia Monsorio, oltre Pugliano, Castel Venere e Petraria (feudi antichi) vi aggiunse nel 1420 anche il casale di San Salvatore e Faicchio con Massa Inferiore e Solopaca. Cfr.: L. Petrucci, manoscritto.
Da questa unione nacquero quattro figli maschi ed una femmina. Di questi, Ferrante e Annibale divennero abati di Santa Maria d’Avanzo in Puglia; Lucrezia andò in sposa ad Andrea d’Ievoli e Ferrante fu ucciso da un colpo di balestra in circostanze misteriose (s’ipotizzò un movente passionale essendo egli di grande fascino e rinomato donnaiolo).
Unico erede dei possedimenti rimase Vincenzo Monsorio a cui il 26 febbraio 1507, con decreto di Ferdinando II d’Aragona, vennero confermati i feudi già in possesso della sua famiglia:
Terram Faychie cum casalibus et cognitione primarum et secondarum causam; necnon Terram Torelli, Casale Sancti Salvatoris, Terram Veneris, quartam partem casalis Suripache et casale Pugliani et Fragneti cum eorum et earum castris, hominibus, vaxalis etc.
Nello stesso anno venne investito anche del feudo di Rocca Nuova, situato sulla sommità dell’omonima collina, che in passato era stata anche sede vescovile, comprendente il casale abitato di Massa Superiore.
Vincenzo Monsorio, il Duca, forse il personaggio più autorevole della casata, avviò la costruzione del Castello di San Salvatore; sposò Antonina De Capua e visse la sua vita nel castello di famiglia, circondato da fossati e ponte levatoio nel rione “Terra”, a stretto contatto con gli abitanti del Casale che avevano costituito un gruppo di case su di un fazzoletto di terra messo a disposizione dagli abati del monastero di San Salvatore. Vincenzo ebbe due figli maschi: Iacopo e Antonio. Il primogenito Iacopo, seguendo una consuetudine familiare, divenne abate commendatario nel Monastero di S. Maria d’Avanzo in Puglia che, con ogni probabilità, è riconducibile all’Abbazia di Santa Maria di Banzi, situata nel comune lucano di Banzi.
I beni di famiglia rimasero quindi nelle mani di Antonio Monsorio.
Il Duca Vincenzo morì il 2 marzo 1519 e alla sua morte i familiari fecero costruire un imponente sarcofago marmoreo all’interno di una cappellina intorno alla quale, in epoca successiva, venne edificata l’attuale chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta di San Salvatore.
Il sepolcro è tuttora visibile ed è interamente di marmo bianco; è composto da un sontuoso altare sormontato da un fregio all’interno del quale è incastonato lo stemma araldico della nobile famiglia.

Lo stemma araldico in cima al monumento aiuta a definire la provenienza dei Monsorio; l’etimologia del nome, infatti, riconduce alla sua derivazione montana (mons = monte; orior = provenire, discendere). Le insegne originali raffigurano la cima di un monte di colore oro mentre l’avanzo del campo è rosso porpora. In un secondo momento Carlo II d’Angiò (1254-1309) concesse a Federico Monsorio, dopo averlo nominato suo consigliere, il privilegio di poter includere nello stemma della casata il giglio d’oro di Francia, in segno di fratellanza e di fedeltà.3S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Ed. G.B. Cappello, Napoli, 1610, pag. 723.
Il monumento funebre dedicato a Vincenzo Monsorio si compone di un’iscrizione con la dedica ai posteri della famiglia. L’epitaffio ricorda che la tomba è stata realizzata dalla moglie del Duca e dal primogenito Antonio: «Viator ne te lateat quaem praeteris iacet hic Vincentius Monsorius animi et corporis dotibus insignis cui Antonina De Capua uxor probissima et Antonius filius pientissimus. H.P. Anno Domini MCXVIIII die 2 martii».
Al di sotto di essa è raffigurato il Duca Monsorio, adagiato su morbido giaciglio. Egli indossa una corazza con falde anteriori, ha lo spadino al fianco sinistro, ginocchielli e schinieri alle gambe. Ai suoi piedi vegliano due cuccioli di cane. La cappella funebre presenta al centro del pavimento una grande botola centrale ricoperta da una lastra di marmo bianco, che conduce alla cripta di famiglia dove successivamente saranno sepolti anche donna Lucrezia De Capua, moglie di Vincenzo Monsorio, morta due anni dopo il marito e precisamente il 4 ottobre 1620 e Cornelia Monsorio, vedova di Francesco Acquaviva, a sua volta deceduta il 28 giugno 1656.4Nel 1813 la cappella divenne di proprietà di Antonio Rabuano, dottore in Diritto canonico e civile che s’incaricò di erigere un nuovo altare dedicato alla S. Croce e del rifacimento del pavimento. Cfr.: Memoria di don Bruno Gagliardi, MS del 1927.

Un importante ramo della famiglia Monsorio governò in Calabria dove fu ascritto ad un primo ordine civico di Reggio Calabria.

La lotta tra i Monsolini ed i Melissari è ricordata finanche in una famosa ballata del cantautore Fabrizio de André dal titolo Sinàn Capudàn Pascià, del 1984, in cui si narra di Scipione Cicala, un marinaio di origini genovesi rapito in giovane età dai turchi che, convertitosi all’Islam, arrivò a ricoprire la carica di «Capudan Pascià», equivalente a gran’Ammiraglio dell’esercito ottomano.5Il brano Sinàn Capudàn Pascià è contenuto nell’album Creuza de Ma, Ed. Ricordi, 1984.
___________
Bibliografia:
S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Stampa A. Massi, Firenze, 165.
E. Bove, Santa Maria Assunta, scrigno di conoscenza, Tip. Nuova Impronta, Cusano, 2016.
B. Candida Gonzaga, Memoria delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, 1875.
B. Gagliardi, Memoria, manoscritto del 1927.
S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Ed. G.B. Cappello, Napoli, 1610.
___________
[1] Per un’accurata descrizione della famiglia Monsorio si rimanda a testi specifici: S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Stampa A. Massi, Firenze, 1651, pag. 47 e segg.; B. Candida Gonzaga, Memoria delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, 1875, ristampa Forni, Bologna, 1965; S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Ed. G.B. Cappello, Napoli, 1610, pag. 723.
[2] Secondo il Petrucci la cifra esatta era di quattromila ducati. Dunque, sempre secondo tale fonte, la famiglia Monsorio, oltre Pugliano, Castel Venere e Petraria (feudi antichi) vi aggiunse nel 1420 San Salvatore e Faicchio con Massa Inferiore e Solopaca. Cfr.: L. Petrucci, Ms.
[3] S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Ed. G.B. Cappello, Napoli, 1610, pag. 723.
[4] Nel 1813 la cappella divenne di proprietà di Antonio Rabuano, dottore in Diritto canonico e civile che s’incaricò di erigere un nuovo altare dedicato alla S. Croce e del rifacimento del pavimento. Cfr.: Memoria di don Bruno Gagliardi, MS del 1927.
[5] Il brano Sinàn Capudàn Pascià è contenuto nell’album «Creuza de ma» di Fabrizio de André, Ed. Ricordi, 1984.