
E’ noto che le abbazie medievali svolgevano funzioni di cura ed assistenza ed erano solitamente dotate al loro interno di un «ospedale», dal lat. hospitale inteso come luogo destinato ad offrire ospitalità a chi ne avesse bisogno, altresì detto nosocomio (dal greco nósoj, nósos, “malattia” e koméin, komeîn, “curare”).1G. Bellucci, M. Tiengo, La storia del dolore, Altra M&P, Milano, 2005, pag. 37.
La medicina monastica nacque inizialmente per fronteggiare le esigenze di salute degli stessi monaci che – oltre a venire isolati dagli altri confratelli per non turbarne le rigide regole di vita – dovevano essere curati con i rimedi suggeriti dalle conoscenze mediche desunte dagli antichi codici custoditi nelle biblioteche monastiche: diete semplici, erbe medicinali, bagni, salassi e cauterizzazioni. Nei monasteri, infatti, più che in qualsiasi altra istituzione, sopravvisse l’interesse per le testimonianze dell’antica cultura; in questi luoghi, piuttosto che altrove, si copiavano e si conservavano manoscritti di antichi poeti, letterati, filosofi ed anche – seppure in misura decisamente minore – medici e speziali.
Quando si ebbe l’apertura del monastero al mondo circostante, l’assistenza e la cura furono estese, com’era naturale che fosse, anche al di fuori della piccola comunità del chiostro, finendo per consentire ai religiosi di adempiere, nel modo più completo e solidale, il precetto dell’amore verso il prossimo.
I monaci riponevano la speranza della guarigione nella misericordia di Dio e nell’azione dei “semplici”.
Nelle abbazie benedettine l’assistenza medica veniva abitualmente erogata attraverso le «infermerie», in questi luoghi la cura del malato – oltre alla presa in carico delle malattie – assicurava un giaciglio e la garanzia di un vito quotidiano, elementi spesso inaccessibili in epoca medievale.
Tutto ciò presupponeva competenza e professionalità, una conoscenza medica non improvvisata, una continuità assistenziale e una ininterrotta disponibilità di mezzi e strumenti. Nacque così la figura del monachus infirmarius che aveva il dovere di prendersi carico dei malati, aver cura del giardino per la coltivazione dei «semplici». Egli celebrava la messa ogni giorno, pronunciava parole di conforto, sopportava senza lamentarsi le deiezioni dei malati, assicurava il mantenimento del fuoco in infermeria e la sua illuminazione, consultava frequentemente il medico – unico responsabile della terapia – per ottenere disposizioni, ricevere istruzioni, chiedere assicurazioni sull’andamento clinico della malattia; preparava i bagni, le bevande, gli elettuari e tutti gli altri rimedi prescritti dal medico. Distribuiva la quantità di vitto concordata con il medico e, quando lo stato di salute si aggravava, sollecitava i fratelli a pregare per lui.
Lo svolgimento di questa intensa attività assistenziale fece sì che nei monasteri nacquero le prime dimore per i bisognosi, gli xenodochia, dove ospitare le persone bisognose di cure.2L’etimologia della parola xenodochia (dal greco xenodokeion, composto da xenoV = forestiero e decomai = accogliere) indica la specifica natura della sua funzione, cioè quella di ospizio gratuito per forestieri.
Etimologicamente il termine greco xenodochio identificava il luogo di ricovero per i pellegrini forestieri e come tale veniva utilizzato per identificare un luogo di accoglienza per stranieri, in maniera distinta dalla definizione latina di hospitale o hospitium che, invece, rappresenta il luogo di ospitalità, quindi di accoglienza di pauperes et infirmi. Col passar del tempo, però, i due termini divennero pressochè intercambiabili finché, verso il X-XI secolo, il vocabolo di derivazione latina soppiantò definitivamente quello di origine greca, assumendone anche le competenze. Inizialmente l’assistenza praticata negli hospitia fu generica: un’assistenza caritatevole senza alcuna distinzione tra pellegrini e indigenti, espletata in modo generalizzato verso l’intera categoria di bisognosi.

Non si sottrasse a questo compito di assistenza caritatevole nemmeno l’abbazia benedettina del Santo Salvatore di San Salvatore Telesino. Sorta intorno all’anno mille, nei due secoli successivi assunse un’importanza fondamentale per il territorio telesino non solo per la sua intensa attività religiosa ma anche per lo svolgimento di mansioni legate all’assistenza medica e infermieristica nei confronti dei monaci, degli abitanti del Casale di San Salvatore, un piccolo borgo dipendente dall’abbazia, e nei confronti di viandanti e pellegrini.
Trovandosi lungo le direttrici della via Francigena, infatti, il monastero benedettino divenne inevitabilmente un importante luogo di riferimento per l’accoglienza e per l’assistenza ai bisognosi.
Abbiamo due conferme indirette di questa attività: la prima è legata al fatto che indagini archeologiche hanno potuto confermare che il complesso monastico era dotato di due giardini: quello ad Est utilizzato prevalentemente come cimitero per i monaci mentre quello ad Ovest, dove sono tuttora visibili i resti del pozzo di sant’Anselmo, era adibito, oltre che alla coltivazione dei beni di prima necessità, anche alla coltivazione dei “semplici”, di erbe medicamentose da utilizzare a scopo terapeutico.
Di tale servizio, svolto dall’infirmarius, se ne avvalse sicuramente la comunità monastica e la popolazione ad essa asservita. Alcune stanze del cenobio sansalvatorese, inoltre, furono destinate al ricovero ed alla cura caritatevole di monaci, degli abitanti del Casale di San Salvatore definiti genericamente populus abbatiae, e dei pellegrini che giungevano occasionalmente al monastero.

Un’altra conferma indiretta dell’attività sanitaria espletata nel monastero di San Salvatore deriva da una testimonianza risalente alla primavera del 1105. All’epoca, due monaci dell’abbazia di Troia in Puglia che si erano recati in una chiesa di Roma con l’intento di trafugare le spoglie mortali del loro patrono sant’Eleuterio per riportarle in città, vennero inseguiti dalle guardie del tempio. Uno di loro rimase gravemente ferito ma i monaci pugliesi riuscirono a rubare le reliquie e ad abbandonare rocambolescamente il territorio pontifico. Nel loro ritorno in patria, oltrepassarono l’Appennino giunsero nella valle del Volturno e si fermarono all’abbazia di San Salvatore, posta lungo il tragitto dell’antica via Latina e riferimento geografico di particolare rilevanza.3Aa.Vv., I Santi Patroni della città di Troia, a cura del Gruppo Santi Patroni di Troia ANSPI, Centro Grafico Francescano, Foggia, 1992, pagg. 30-33.
Qui ricevettero cura ed assistenza presso il monastero di San Salvatore probabilmente durante gli ultimi anni di reggenza dell’abate Giovanni, discepolo di S. Anselmo d’Aosta arcivescovo di Canterbury. Ebbero così la possibilità di portare a Troia le reliquie del santo, venendo accolti dalla popolazione festante.
Una interessantissima pubblicazione a fumetti – appositamente realizzata per gli adolescenti – descrive dettagliatamente la storia delle reliquie di sant’Eleuterio, compresa la forzosa sosta presso il monastero di San Salvatore a cui i monaci furono costretti a ricorrere prima di riprendere il cammino verso la propria città. Qui sotto la striscia contenente la vicenda descritta.4G. Marino, All’ombra della Cattedrale, Omnia grafica, Foggia

____________
NOTE:
[1] G. Bellucci, M. Tiengo, La storia del dolore, Altra M&P, Milano, 2005, pag. 37.
[2] L’etimologia della parola xenodochia (dal greco xenodokeion, composto da xenoV = forestiero e decomai = accogliere) indica la specifica natura della sua funzione, cioè quella di ospizio gratuito per forestieri.
[3] Aa.Vv., I Santi Patroni della città di Troia, a cura del Gruppo Santi Patroni di Troia ANSPI, Centro Grafico Francescano, Foggia, 1992, pagg. 30-33.
[4] G. Marino, All’ombra della Cattedrale, Omnia grafica, Foggia