Nel gergo dialettale la parola «connola»1dal latino tardo-antico cunula, diminutivo di cuna, per indicare un luogo cavo indicato per il riposo dei bambini e de neonati. Nel dialetto napoletano ne deriva il verbo transitivo connoliare, sinonimo di dondolare, riferito ai movimenti lievi e dolci per facilitare il sonno. Cfr.: V. De Ritis, Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, vol. I, Stamperia Reale, Napoli, 1845. indica il giaciglio del neonato ed è stata da sempre identificata come simbolo di custodia e di accoglimento. Tale funzione palingenetica ha attraversato anche i secoli passati; la culla, infatti, è stata in uso praticamente in tutte le civiltà antiche. In particolare, presso i Romani, ricorrono spesso termini come cunae e cunabula termini utilizzati indifferentemente per indicare la culla oppure il luogo di origine.

Ne fa cenno anche Plauto – uno dei più prolifici commediografi dell’antichità latina – che in alcune sue opere cita gli incunabula, in riferimento ad una specie di fasce che tenevano legato il bambino nella culla, impedendogli di cadere. 
La culla e le bende, infatti, venivano utilizzate per proteggere il neonato dai pericoli ed allevarlo alla vita. Ne sono prova la collezione di Matres Matutae custodite presso il Museo di Capua che dimostrano come, già in età pre-arcaica, la genitrice italica protegga il corpo del suo piccolo con lunghe bende di stoffa dispiegate a spire oblique. 

Mater Matuta

Nel IV sec. a.C., le donne sannite cingevano i neonati con analoghe fasciature disposte a volute orizzontali e, a seconda delle disponibilità economiche, appendevano al collo del neonato la bulla, una medaglietta d’oro dalle presunte proprietà apotropaiche che serviva ad allontanare il malocchio.2G. Penco, La Medicina romana, Ed. Ciba-Geigy, Milano, 1989, pag. 443. Presso la cultura popolare è tuttora in voga la tradizione degli “abitini”, piccoli manufatti in stoffa contenenti immagini di santi protettori che venivano fatti indossare ai bambini per proteggerli dalle malattie. 

Tali pratiche, come testimoniano le ricerche archeologiche, erano in uso anche presso la Telesia sannitica e romana, città di antiche e gloriose tradizioni le cui origini sono avvolte nel mistero e si perdono nella notte dei tempi. 

Il sito originario di Telesia era situato sulle alture del monte Acero, in una posizione impervia, protetta da una fitta vegetazione e delimitata da giganteschi blocchi di pietra. Ed è proprio questo luogo a dare origine ad una prima leggenda, quella delle «Mura delle Fate»: un nome derivante dalla convinzione popolare che attribuisce alle fate la realizzazione di tali gigantesche strutture.3La presenza di mura megalitiche definite «Mura delle Fate» è comune a diverse civiltà antiche e tale definizione è largamente diffusa in diversi insediamenti fortificati in opera poligonale in area campano-sannita.

Mura megalitiche di Monte Acero

Si tratta di strutture poligonali costituite da blocchi in pietra di notevoli dimensioni, sovrapposte a formare una cinta muraria senza merlatura per delimitare l’area di un primitivo insediamento urbano.4«blocchi in opera poligonale sull’Acero sono gli unici avanzi della rocca annoverata tra i maggiori esempi dell’architettura militare dei Sanniti; le mura che si svolgono lungo un perimetro irregolarmente quadrangolare, sono costituite da grossi blocchi poligonali tendenti al rettangolare, cavati dal calcare stratificato del monte, secondo i naturali punti di rottura: gli interstizi sono riempiti di pietrame minuto. La cinta ha un perimetro di circa 3 Km. e l’altezza media del muro è di m. 3,50 circa. Una porta si trova in un saliente sul lato meridionale in direzione di Telesia, dove la quota della cinta si abbassa leggermente seguendo il pendio. Un’altra porta si trova nel punto più basso della cresta fra le due cime». Cfr.: F. Russo, Faicchio, fortificazioni sannite e romane, pag. 121. 

Nel corso dei secoli queste mura hanno affascinato studiosi, storici ed archeologi che hanno avanzato diverse ipotesi circa loro origine senza che ciò portasse ad una unanime spiegazione. Ancora oggi la comunità scientifica discetta su tale questione tra pochi assiomi e moltissime incertezze e, come spesso accade, laddove la scienza non riesce a dare concrete risposte, suppliscono le leggende che si rifugiano in ipotesi strampalate, prive di riscontri concreti, ma dense di particolari fantastici e affascinanti. 

È avvenuto così anche per le mura ciclopiche di monte Acero che hanno lungamente alimentato la fantasia popolare contribuendo a rendere più incantevole la ricerca e lo studio di questa terra.5Molti scrittori classici del passato (tra cui Omero, Plutarco e Diodoro Siculo) hanno attribuito la costruzione delle strutture megalitiche all’opera dei Ciclopi. Costoro erano creature favolose della mitologia greca, di statura gigantesca e con un solo occhio, capaci di spostare enormi massi e di costituire opere “ciclopiche”.

Certo, si rimane sbigottiti dalla enormità dei massi disposti uno sull’altro e sorge spontaneo l’interrogativo di come sia stato possibile accatastarli in quel modo. Sebbene le nostre conoscenze non ci consentano di svelare l’arcano, la leggenda, invece, risolve il problema narrando la storia di spiriti naturali, purissimi ed eterei, con sembianze di bellissime fanciulle, definite volgarmente «fate».6Le fate sono figure mitologiche, invenzione del medioevo ma derivanti dal mito delle ninfe o delle Parche della mitologia classica. Capaci di poteri straordinari e qualità sovrumane, esse sovrintendono agli intrecci del fato, cioè di ciò che regola il destino degli uomini. Cfr.: M. Negri, All’origine delle parole, Ediz. della Terra di Mezzo, Milano, 2002, pag. 99.

Sarebbero loro le responsabili dirette di quest’immane opera. Ornate di abiti variopinti e svolazzanti veli, queste entità sovrannaturali avrebbero costruito, in un lasso di tempo imprecisato, una inespugnabile fortezza sul monte Acero trasportando, al chiaro di luna e senza alcuno sforzo, quei giganteschi massi sulla testa, proprio come facevano le nostre madri quando trasportavano acqua dai pozzi in grosse tinozze o pesanti sacchi di frumento dalla campagna. Sta di fatto che tale acropoli, indipendentemente dalle modalità di realizzazione della cinta muraria, ha avuto una costante frequentazione; lo testimoniano ritrovamenti in loco di una vastità di frammenti in terracotta, simbolo di un’attività quotidiana.
Con l’abbandono del primitivo insediamento sannitico della città telesina, la nuova polis costruita a valle e che diverrà successivamente colonia romana con una imponente cinta muraria, nasconderà numerose altre leggende: la prima di esse riguarda il mito di Ercole e del famoso Tempio a lui dedicato. 

Benché dell’esistenza di questo Tempio non fosse mai stata trovata traccia, il Petrucci, in uno schizzo allegato alla sua opera, colloca tale struttura al di fuori delle mura urbane della Telesia romana, in prossimità dell’anfiteatro.7L. Petrucci, Storia di Telesia, ms, 1853-63, Deputazione di Storia Patria, Napoli. 

da Petrucci, Storia di Telesia

La credulità popolare invece – ripresa da alcuni storici del medioevo – ritiene di individuare questo luogo sacro in una zona dell’attuale centro urbano di San Salvatore Telesino.8«Il villaggio di S. Salvadore giace quasi un miglio alla dritta dall’antica Telesia…non fu mai come ella murato ed altro non vi fu che il Tempio di Ercole, solito costruirsi fuor di città. Di esso tempio vi vedono oggidì le rovine su d’un agevol rialto di terra, circondato da vecchie mura, e torri dalla parte di un torrente, del di cui portico nella piazza davanti la chiesa arcipretale vi resta un mucchio di antichi marmi fra’ quali mi fu riferito essersi trovati torsi di statue senza testa, e fra di essi una statua colossale colla testa che sembrava quella di Ercole e con essa l’iscrizione seguente: HERCULI SANCTO S. ACHILLEUS». Cfr.: G.F. Trutta,  Dissertationi istoriche delle antichità alifane, Stamperia Simoniana, Napoli, 1776, pagg. 246-247.

Ma la leggenda più suggestiva di Telesia riguarda un rudere collocato al di fuori della cinta urbana e chiamato da tutti la «Connola di Sansone». Con ogni probabilità il nome deriva dalla conformazione a barca della struttura, quasi fosse stata utilizzata per cullare un ciclopico neonato. Il rudere, tuttora visibile benché parzialmente coperto dalla vegetazione, ha la forma di un parallelogramma della lunghezza di 12 palmi per 8 di lunghezza.9Il palmo misura approssimativamente 26,5 cm) Nel fondo concavo della struttura è visibile un foro che il Petrucci attribuisce ad uno scolo per il deflusso dell’acqua.     

Secondo ogni apparenza era questo un Baptistero, che veniva sostenuto in alto da due pilastri situati alla punta. Lo spazio intermedio formava un corridojo, coverto superiormente dalla base del Baptistero. […] Questo termine non deve ritenersi che come bagni situati in alto, stabili su pilastri, ma non ondeggianti. Secondo siffatta descrizione io ho creduto che il pezzo di fabbrica detto Connola era un Baptistero di bagno pensile, il quale restava in alto per circa venti palmi.10L. Petrucci, Storia di Telesia, ms

L’acqua necessaria raggiungeva il sito tramite tubature di piombo che attraversavano la città; molte condotte di piombo, infatti, sono state rinvenute in prossimità della struttura.11In dialetto questo luogo viene definito “Cannutto” ossia condotto.

Altri autori, a differenza del Petrucci ritengono la Connola un antico luogo di sepoltura risalente al periodo sannitico.12G.F. Pacelli, Memoria storica della città di Telese, Cerreto, 1775.

La leggenda invece racconta una storia sicuramente più affascinante: il rudere nascerebbe per merito delle Streghe di Benevento, incaricate di trasferire al Duomo di quella città la mastodontica porta in bronzo di Telesia. Il notevole peso della porta costrinse le Streghe, non appena spiccato il volo, a posarsi affannate, di nuovo subito fuori le mura. Il bronzo venne quindi adagiato su questo gran nucleo in calcestruzzo che, non potendo sopportare il peso, si spezzò rovesciandosi così nella posizione attuale. Si è favoleggiato sulla presenza di monete d’oro, di luccicanti tesori nascosti all’interno della Connola e di nugoli di serpi posti a custodia degli arcani beni preziosi.

Sempre secondo la leggenda, in prossimità della Connola una serie di cunicoli sotterranei partivano dalla città e s’inoltravano per svariati chilometri nelle varie direzioni; pare che alcuni di essi, raggiungendo una lunghezza impressionante, rendessero possibile una efficace comunicazione tra la città di Telesia ed Alife, Capua o addirittura Venafro.

Sarebbero state proprio queste improbabili vie di fuga a salvare il popolo telesino dalle invasioni saracene: all’arrivo dei feroci conquistatori, i telesini si nascondevano in questi “ricoveri” segreti, uscendone soltanto a pericolo cessato. Ciò spiegherebbe perché, pur essendo stato più volte assalito, il popolo telesino non sia stato mai completamente annientato, rimanendo in grado di far rivivere nuovamente la città devastata.

Questo è quanto racconta la tradizione popolare ma, com’è ovvio, la storia non può accontentarsi delle leggende.



_____________________

[1] Connola, dal latino tardo-antico cunula, diminutivo di cuna, per indicare un luogo cavo indicato per il riposo dei bambini e de neonati. Nel dialetto napoletano ne deriva il verbo transitivo connoliare, sinonimo di dondolare, riferito ai movimenti lievi e dolci per facilitare il sonno. Cfr.: V. De Ritis, Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, vol. I, Stamperia Reale, Napoli, 1845.
[2] G. Penco, La Medicina romana, Ed. Ciba-Geigy, Milano, 1989, pag. 443. Presso la cultura popolare è tuttora in voga la tradizione degli “abitini”, piccoli manufatti in stoffa contenenti immagini di santi protettori che venivano fatti indossare ai bambini per proteggerli dalle malattie.
[3] La presenza di mura megalitiche definite «Mura delle Fate» è comune a diverse civiltà antiche e tale definizione è largamente diffusa in diversi insediamenti fortificati in opera poligonale in area campano-sannita.
[4]  «blocchi in opera poligonale sull’Acero sono gli unici avanzi della rocca annoverata tra i maggiori esempi dell’architettura militare dei Sanniti; le mura che si svolgono lungo un perimetro irregolarmente quadrangolare, sono costituite da grossi blocchi poligonali tendenti al rettangolare, cavati dal calcare stratificato del monte, secondo i naturali punti di rottura: gli interstizi sono riempiti di pietrame minuto. La cinta ha un perimetro di circa 3 Km. e l’altezza media del muro è di m. 3,50 circa.
Una porta si trova in un saliente sul lato meridionale in direzione di Telesia, dove la quota della cinta si abbassa leggermente seguendo il pendio. Un’altra porta si trova nel punto più basso della cresta fra le due cime». Cfr.: F. Russo, Faicchio, fortificazioni sannite e romane, pag. 121. 
[5] Molti scrittori classici del passato (tra cui Omero, Plutarco e Diodoro Siculo) hanno attribuito la costruzione delle strutture megalitiche all’opera dei Ciclopi. Costoro erano creature favolose della mitologia greca, di statura gigantesca e con un solo occhio, capaci di spostare enormi massi e di costituire opere “ciclopiche”.
[6] Le fate sono figure mitologiche, invenzione del medioevo ma derivanti dal mito delle ninfe o delle Parche della mitologia classica. Capaci di poteri straordinari e qualità sovrumane, esse sovrintendono agli intrecci del fato, cioè di ciò che regola il destino degli uomini. Cfr.: M. Negri, All’origine delle parole, Ediz. della Terra di Mezzo, Milano, 2002, pag. 99.
[7] L. Petrucci, Storia di Telesia, ms, 1853-63, Deputazione di Storia Patria, Napoli.
[8] «Il villaggio di S. Salvadore giace quasi un miglio alla dritta dall’antica Telesia…non fu mai come ella murato ed altro non vi fu che il Tempio di Ercole, solito costruirsi fuor di città. Di esso tempio vi vedono oggidì le rovine su d’un agevol rialto di terra, circondato da vecchie mura, e torri dalla parte di un torrente, del di cui portico nella piazza davanti la chiesa arcipretale vi resta un mucchio di antichi marmi fra’ quali mi fu riferito essersi trovati torsi di statue senza testa, e fra di essi una statua colossale colla testa che sembrava quella di Ercole e con essa l’iscrizione seguente: HERCULI SANCTO S. ACHILLEUS». Cfr.: G.F. Trutta,  Dissertationi istoriche delle antichità alifane, Stamperia Simoniana, Napoli, 1776, pagg. 246-247. 
[9] Il palmo misura approssimativamente 26,5 cm.
[10] L. Petrucci, Storia di Telesia, manoscritto
[11] In dialetto questo luogo viene definito “Cannutto” ossia condotto.
[12] G.F. Pacelli, Memoria storica della città di Telese, Cerreto, 1775.


Emilio Bove

Medico e scrittore. Ha all’attivo numerose pubblicazioni tra cui una Vita di San Leucio, dal titolo «Il lungo viaggio del beato Leucio», edita nel 2000. Ha pubblicato nel 1990 «San Salvatore Telesino: da Casale a Comune» in cui ripercorre l’evoluzione del suo paese dalla nascita fino alla istituzione del Comune. Ha scritto il romanzo-storico «L’Ultima notte di Bedò», vincitore del Premio Nazionale Olmo 2009 che narra la storia di un eccidio nazista perpetrato nell’ottobre 1943. Nel 2014 ha dato alle stampe la storia della Parrocchiale di Santa Maria Assunta con la cronotassi dei parroci. È autore di un saggio sulla storia della depressione dal titolo: «Il potere misterioso della bile nera, breve storia della depressione da Ippocrate a Charlie Brown». Ha partecipato all'antologia "Racconti Campani" e al volume "Dieci Medici Raccontano", vincitore del Premio Letterario Lucio Rufolo 2019. Nel 2021 ha dato alle stampe «Politica e affari nell'Italia del Risorgimento. Lo scontro in Valle telesina. Personaggi e vicende (1860-1882)». Collabora con numerose riviste di storia. Presidente dell’Istituto Storico Sannio Telesino è Direttore Editoriale della Casa editrice Fioridizucca.