
I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell’aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache”
(Plinio il Vecchio)
La Via Appia è stata la prima e più importante delle grandi strade costruite dai Romani. Fu voluta nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco per garantire una comunicazione rapida e diretta tra Roma e Capua, “civitas sine suffragio”, seconda città della Repubblica romana e loro alleata dal 338 a.C.
Ponti, viadotti, gallerie assicurarono un percorso assolutamente rettilineo e rapido per i tempi, attraverso distese d’acqua, paludi e montagne. Grazie anche a queste prerogative, la Via Appia, tramite di propagazione della civiltà romana e crocevia di diverse culture, è stata iscritta il 27 luglio 2024 nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. Un giusto riconoscimento che ha fatto talmente inorgoglire qualche politico nostrano che, nella fretta di trovare un posto sul carro dei vincitori?!?, ha gridato, urbi et orbi, “la Via Appia, volano di sviluppo e identità di noi sanniti…”.
E no. Per carità! La regina viarum rivela una concezione sorprendentemente moderna, con soluzioni ingegneristiche all’avanguardia, ma è un patrimonio che rappresenta esclusivamente l’identità di Roma dopo la conquista del Sannio! Altrimenti è come se dicessimo che… Giuseppe Garibaldi e/o Camillo Benso di Cavour sono “patrimonio” del Regno di Napoli!
Ma riavvolgiamo un po’ il nastro.
Le prime “viae”, come venivano indicate le strade che partivano da Roma, furono costruite soprattutto per consentire rapidi spostamenti delle legioni in un impero che si ingrandiva sempre di più. Migliaia di chilometri di vie diritte, edificate con grande perizia, in pratica uno dei più grandiosi complessi monumentali che l’uomo abbia mai lasciato di se stesso.

E tra il Lazio-Campania?
Qui si estendevano terre pianeggianti e fertili, che i romani chiamavano “campi”, ed in cui venivano stanziati, man mano che avanzavano le conquiste, i cittadini privi di terre e i veterani con un onorevole benservito dell’esercito. Fino allo scoppio delle Guerre Sannitiche, la Campania era raggiungibile solo attraverso un percorso preistorico che gli Etruschi utilizzarono per colonizzarla tra i secoli VIII e VI a.C. Una via tutt’altro che funzionale alla politica romana di conquista e controllo del territorio, e che attraversava zone controllate da tribù italiche tutt’altro che disposte a perdere quei pascoli utili durante la stagione fredda. Campi che a Roma servivano per produrre grano per sfamare le truppe. Era necessario quindi realizzare una strada che segnasse una svolta, anche per evitare che le legioni fossero spesso costrette a seguire tratti montani, lungo valli e gole in un territorio ideale per la guerriglia e le imboscate, non certo adatto ad un esercito organizzato come il loro. Erano autentiche trappole da percorrere pericolosamente in fila indiana: “Costringere le legioni romane a camminare in fila indiana, sembra sia stata una tattica vincente“. Lo sostenne il tedesco prof. Heinrich Sturemburg, nel libro Zu den Schlachtfeldern am Trasimenischen See und in den Caudinischen Pässen.
Nell’immediato, serviva una strada comoda e sicura per raggiungere Capua, ai confini dei monti Pentri, ed il castrum realizzato a Caiatia, sul Volturno. E così nacque la prima “autostrada” verso il sud: “La Via Appia”, la strada che, in 195 km., collegava Roma a Capua con un percorso agile e più breve della Via Latina. Nel 268 a.C. poi, mezzo secolo dopo l’imboscata delle Forche Caudine e una ventina di anni dopo la conquista dei monti Pentri, con l’inizio del trasferimento delle bellicose tribù dai monti a valle e la nascita di Saepinum e Telesia, Roma prolungò la via fino a Maleventum, ribattezzata Beneventum dopo la vittoria contro Pirro, re dell’Epiro, oggi corrispondente a una regione tra Albania e Grecia”. Il percorso della nuova arteria strategicamente abbandonò le valli dei fiumi Volturno e Calore, comunque soggette al controllo Pentro, attraverso la valle oggi chiamata “caudina.
Ma, a parte la Via Latina che garantiva un collegamento verticale tra Lazio e la Campania, non esisteva alcun sentiero trasversale che, attraverso gli Appennini collegasse il versante Tirrenico con quello Adriatico (mare Superum), la Daunia, ambita sia per gli estesi campi di grano, indispensabile per sfamare le truppe, sia sbocco a mare verso l’ambito Oriente? Pochi, pochissimi ne hanno parlato… anche se le puntuali descrizioni di Tito Livio e Polibio non danno adito a dubbi. E se lo storico Pietro Napoli-Signorelli, già nel libro Vicende della coltura nelle due Sicilia,1812, avvertiva: «Attenzione! prima però di questa via (Appia), esisteva la Via che è dalla Calazia Campana per Furclas Caudinas, menava a Luceria, ed era, a dir di Livio, assai breve, e questa non apparteneva né alla Latina né all’Appia formate da poi», Domenico Caiazza (La Via Latina ed i suoi raccordi) e don Nicola Vigliotti la hanno con precisione individuata in quel tratto di strada che, partendo da Torre Marafi di Faicchio e seguendo il Titerno, raggiungeva Saepinum per arrivare nella Daunia. “Sin dal tempo delle Primavere Sacre, diversi erano gli itinerari che, attraverso la catena del Matese, portavano i Sanniti a contatto con i connazionali stanziati a Sud del Massiccio, sulla destra del basso Titerno…: vie certo non facili, ma più brevi...”– scriveva D. Nicola Vigliotti nel libro: “S. Lorenzello e la Valle del Titerno”, per sottolineare l’importanza strategica della Valle tra le Guerre Sannitiche ed Annibaliche quale collegamento tra Campania e Puglia:
“…una saliva da Sepino alle pendici meridionali del Mutria, scendeva giù per la valle del Titerno e, dopo aver seguito per breve tratto il Monterbano, attraversava il Titerno sul ponte detto di Annibale, per poi raggiungere Cerreto e proseguire a Sud verso la Valle Telesina”.

E più recentemente Il Prof. Marcello Gaggiotti, nel convegno La romanisation du Samnium, tenuto a Napoli il 4-5 Novembre 1988, parlando di Saepinum, sembra proprio confermare questi assunti: «L’elemento cardine dell’intera articolazione paganico-vicana dei Pentri è costituito dalla viabilità: ad una direttrice trasversale, transmontana, che aveva come terminali rispettivamente la Campania e la costa Adriatica, maggiormente attiva in epoca più antica, se ne contrappone una longitudinale, fra l’Abruzzo e la Puglia». E Saepinum, fino a prova contraria, non fu costruita “lungo il tratturo Pescasseroli-Candela, come sommariamente si dice, ma all’incrocio tra questo tratturo e quello trasmontano, il cardo. Quale percorso fosse più importante all’epoca della fondazione della New Town romana lo si legge chiaramente nello schema urbanistico dell’Urbs Saepinum. Il Foro e la Basilica sono decisamente in funzione del tratturo che attraversa Porta Tammaro e Porta Terravecchia, mentre lungo il Pescasseroli-Candela sorsero solo edifici funzionale alla transumanza… ri-organizzata da Roma per far pagare il “pedaggio”!

Ma i riferimenti storici?
Ecco Tito Livio.

La prima volta ne parla (Ab urbe condita IX, 2) quando indica una alternativa alla strada che da Caiatia conduceva a Luceria: «altera per Furculas Caudinas, brevior». E cita ancora il riferimento topografico “Furculas Caudinas” là dove descrive l’indecisione dei sanniti che, dopo aver bloccato i romani tra le due gole, non sapendo cosa fare, chiesero aiuto al padre di Gaio, Erennio: «Is ubi accepit ad Furculas Caudinas inter duos saltus clausos esse exercitus Romanos». E così la descrive: “Si tratta però di un luogo con questo tipo di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di boschi, collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a queste montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi è necessario attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri passi per la strada fatta all’andata, oppure – qualora si voglia procedere – attraversare una gola ancora più stretta e impervia della prima”. Sembra proprio una descrizione degna di una guida del TCI.

Ma anche la descrizione di Polibio è chiara! Nelle sue Historiae narra di Annibale che, dopo la battaglia di Canne del 216 a.C., decise di spostarsi da Gerione, ove era accampato, a Capua. Tre erano le strade percorribili: una attraverso il territorio ἐκ τῆς Σαυνίτιδος, un’altra attraverso quello degli irpini (Ἱρπίνους τόπων) e, il terzo, che scelse, è quello che, dopo aver attraversato il Sannio, seguiva le strettoie del Monte Erbano (III-XCII): «Ἀννίβας … ἐκ τῆς Σαυνίτιδος τὰ στενὰ κατὰ τὸν Ἐριβιανὸν.«Annibale, continua Polibio con la sua precisa descrizione, appena uscito dalle strettoie di Monterbano seguendo il corso del fiume Aturnum, giunse in una pianura che tagliava quasi a metà, e qui, al lato (del fiume) che guarda verso Roma, «ἐκ τοῦ πρὸς Ῥώμην μέρους εἶχε…» realizzò l’accampamento. Conoscendo la sua intenzione di «conquistare Capua» il sito doveva essere poco distante dalla città alleata di Roma dal 340 a.C. Non solo. Doveva avere tanta erba e tanta acqua per uomini e animali al seguito. Quindi il sito ove accamparsi era appena fuori da strette gole, lungo il fiume Aturno*, Nome che deriva da a Turno, ex Turio ed oggi Tullio, il maggior affluente del Titerno, come chiarisce anche Carla Schick nel suo volume Le Storie di Polibio – sul lato destro, come diciamo oggi. C’è un solo monte il cui nome è la traduzione italiana di Ἐριβιανὸν: il Monte Erbano.
C’è un solo fiume che, dopo aver attraversato le strette gole, “τὰ στενὰ”, del monte Eribano sbocca in una pianura tagliandola a metà. Questo fiume è il Titerno. E c’è un solo percorso che rientra nei parametri descrittivi di Tito Livio e Polibio. E’ il percorso lungo le gole del Titerno: la Via Brevior tra l’accampamento romano di Caiatia e Lucera.

Né bisogna farsi trarre in inganno dal toponimo “Valle Caudina” perché una superficiale interpretazione potrebbe indurre in errore. La località che oggi si chiama Valle Caudina è solo una parte del territorio abitato dai Caudini nei secoli a.C.: il territorium Caudium (genitivo episegetico). E la pianura nota oggi come «Valle Telesina», tra i fiumi Calore e Volturno e i monti del Matese ne era parte integrante. «I Caudini, come scrive Salmon, vivevano ai margini della pianura campana, nella valle dell’Isclero e lungo il tratto centrale del Volturno».

«Telesia, oppidum dei Sanniti Caudini», scrisse, qualche anno fa, l’archeologa triestina Gabriella d’Henry, nel libro: La romanisation du Samnium, e nell’800, Nicola Corcia, Storico ed Archeologo, nella voluminosa Storia delle Due Sicilie, scrive: «Presso la descritta città (Cerreto) alto si leva tra le eminenze del Sannio Caudino il monte detto Erbano» .
Per sottolineare l’importanza della Via Brevior e della zona montuosa che taglia, da Ovest ad Est, ecco due citazioni “intriganti”: “Ciò che appare certo, scrisse Adriano La Regina su La Repubblica del 12/08/08, e che cambia di non poco la tradizionale ricostruzione storica, è che gran parte delle guerre sannitiche si svolsero proprio nella parte del Sannio corrispondente al Molise interno, tra Isernia, Agnone, Campobasso e Sepino»
“C’è da aspettarsi che ciò che ha detto Mommsen venga scardinato e rivoluzionato perché, attraverso l’esperienza del presente mutano le prospettive con cui si legge il passato e vengono fuori testimonianze dimenticate che lo rivelano diverso da come credevamo”. Marco Buonocore, ex Direttore Biblioteca Apostolica Vaticana.
Buona Pasqua a tutti… con l’augurio che, non si sa mai, un giorno potremo esultare perchè “la Via Brevior” entrerà, di diritto, non dico nel patrimonio Unesco (perché no?), ma almeno in un parco Archeologico all’interno di quello Nazionale del Matese.