L’abbazia benedettina del Santo Salvatore, nel comune di San Salvatore Telesino in provincia di Benevento, ha avuto nel corso della sua storia uno sviluppo innegabilmente affascinante, misterioso e importante. Nel luogo dove è tuttora visibile parte della chiesa e del chiostro di un antico monastero si sono alternati momenti e fatti di indubbia importanza che hanno spesso riguardato e coinvolto molti dei territori limitrofi nella zona del Sannio beneventano. 
Poche le testimonianze scritte sull’abbazia di San Salvatore nel corso della storia1Per quanto riguarda le fonti, la prima testimonianza che attesta la presenza dell’abbazia prima del mille è confermata da un documento risalente al 1075 in cui l’abate Leopoldo sottoscrive una decisione in favore di Madelmo, abate di S. Sofia, essendo arcivescovo di Benevento Milone e vescovo di Telese Gilberto. Cfr. Luigi R. Cielo, L’Abbaziale normanna di S. Salvatore de Telesia, Casa Editrice Esi, Napoli, 1995, p. 4. ma abbiamo la certezza che il monastero telesino, come la maggior parte dei monasteri medievali, oltre a essere un luogo di comunità formata da canonici – le cui attività erano rivolte alla preghiera, all’amministrazione dei beni, alla bonifica e alla coltivazione delle terre – era fortemente impegnato dal punto di vista culturale e letterario. Il lavoro degli amanuensi, incaricati appunto di copiare, una parola dopo l’altra, tutto il libro, era un’attività che prevedeva pazienza, fatica, impegno e meticolosità e rappresentava l’unica possibilità, prima dell’invenzione della stampa, di far circolare l’erudizione e la fede. 

“Monasterium sine libris est sicut civitas sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine suppellectili, mensa sine cibis, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor sine foliis…”

A questo sapiente impegno intellettuale non si è sottratto, dunque, neppure il cenobio benedettino del Santo Salvatore di Telesia, un’istituzione nata con ogni probabilità nel IX secolo come cella monastica dipendente da Montecassino e che visse il massimo periodo di splendore tra la fine dell’XI e il XII secolo e da cui ebbe origine l’omonimo comune situato nella Valle Telesina.2L’attuale comune di San Salvatore Telesino nella valle telesina, nacque come casale di dipendenza monastica, verso la fine del XIV secolo.
Dal rinvenimento di un importante documento, e grazie alle ricerche e al lavoro di apprezzabili studiosi, è possibile stabilire con assoluta certezza che nell’abbazia di San Salvatore ci fosse un vero e proprio sciptorium in cui venivano realizzati testi di grande rilevanza sotto il profilo letterario e spirituale. Pur non avendo molte testimonianze di documenti prodotti nel monastero, l’unica attestazione di tale attività nell’abbazia benedettina di San Salvatore è riscontrabile all’interno di un codice manoscritto contenente un Colophon compilato nella citata abbazia e tuttora custodito nella biblioteca Gambalunga di Rimini. Il manoscritto prodotto in scrittura beneventana e segnato SC – MS 74, si compone di una successione di testi di autori diversi tra cui: un Elucidarium, il cui autore è Onorio di Autum; uno scritto di Ugo di San Vittore dal titolo De tribus diebus e di un trattato denominato Florilegium Peccatorium. Alla fine del manoscritto è presente un Carmen dedicatorio che si rivela particolarmente interessante poiché consente di ottenere qualche supplemento d’informazione sull’abbazia del Santo Salvatore. 
Grazie al Carmen, infatti, è possibile desumere il nome del copista amanuense, quello del committente e la persona a cui è dedicata la poesia e probabilmente l’intero codice. Il primo corrisponde a tal Giovanni, il copista del libro, quasi certamente un confratello del monastero telesino; il secondo, invece, è ascrivibile alla figura dell’abate Stefano, priore dello stesso convento. Certamente egli è lo Stephanus inviato a Salerno da Alessandro Telesino per ricevere l’atto di donazione del monte della Rocca ed è anche la persona che controfirma a Capua un regio decreto nel novembre del 1143, in un Parlamento promosso da Ruggero II e che vide una nutrita partecipazione di arcivescovi, vescovi, conti e baroni del regno.3F. Ughelli, Italia Sacra, Venezia, 1717, vol. VI, pag. 95. Il terzo personaggio e destinatario del Carmen, infine, è identificabile in Ebuolo di Magliano Vetere, camerlengo sotto il regno di Ruggero II d’Altavilla. 
Va precisato che una serie di interrogativi avvolgono, in maniera affascinante, la compilazione e la storia del manoscritto telesino: non abbiamo infatti contezza del percorso fatto dal nostro libro, ma sappiamo che una volta lasciato l’abbazia benedettina finì nella collezione privata del Cardinale Garampi, il protettore della biblioteca Gambalunghiana, alla quale lasciò una serie di importanti manoscritti tra cui quello composto nel nostro convento.4Il codice è comunque testimonianza dell’interesse che rivestiva, agli occhi del Garampi, il particolare tipo di scrittura, allora definita “longobarda”. È il cardinale stesso che, sebbene senza piena consapevolezza, ha contribuito all’imporsi della nuova denominazione di “beneventana”; cfr., a tal proposito, le osservazioni di E.A. Loew, The Beneventan Script, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 19802 (Sussidi eruditi 33), p. 30 sgg. Cfr. I codici miniati della Gambalunghiana di Rimini, cit., pag. 90
In merito al contenuto del nostro codice questo è composto da 90 pagine (ro e vo) in latino e scritte in beneventana dallo stesso scrivano del convento benedettino e può essere così suddiviso: fol. 1r-v comprende un rimedio medico (in latino): “Quattuor modis potest deus facere hominem» e nota di contenuto teologico di due mani del XIV secolo; ff. 2r-48v includono l’Elucidarium di Onorio di Autum; ff. 48v-72r il De tribus diebus, Ugo da San Vittore; i fogli 72r-89r contengono il saggio “Florilegium peccatorium”; infine al f. 89r-v il Colophon contenente il Carmen dedicatorio. Il f. 90r-v che chiude il manoscritto è, invece, vuoto.5Virginia Brown, Terra Sancti Benedicti: studies in the palaeography, history and liturgy of medieval Southern Italy, Edizioni Storia e Letteratura, Roma, 2005, pag. 518
Trattandosi di un codice miscellaneo, il testo comprende al suo interno una serie di scritti eterogenei tra loro per quanto riguarda il tema trattato, ma è altrettanto interessante notare e soffermarci sul lavoro del copiatore, un’attività che richiedeva impegno e dedizione, al pari di qualsiasi lavoro manuale.

Oltre alla stesura del testo, di non secondaria importanza è, infatti, l’aspetto grafico che presenta il manoscritto, in cui la mano dello scrivano si esalta in un’attività di stesura minuziosa e accurata.  Sebbene all’interno del testo la scrittura subisca delle variazioni nelle dimensioni del carattere grafico è possibile stabilire con certezza – secondo lo studio di Virginia Brown – che un unico copista sia responsabile del codice manoscritto. Dallo studio del testo è possibile infatti riconoscere alcune peculiarità: l’aspetto leggermente arrotondato della mano, caratteristico della regione fuori Napoli, in cui le lettere sono meno spigolose e più allargate rispetto alle loro controparti cassinesi e le abbreviazioni sono del tipo usuale nei manoscritti beneventani di quel periodo. C’è, inoltre, una discreta quantità di spazio tra ogni parola che tende a dare un aspetto più morbido e ordinato al testo.6 Ivi, pag. 519
Come tradizionalmente avveniva all’interno dei codici manoscritti medievali, in cui il copiatore per edulcorare l’impianto d’impaginazione eseguiva e disegnava una serie di miniature e di decorazioni, è possibile riscontrare anche nel nostro codice tele caratteristica. Sotto questo punto di vista il manoscritto presenta una varietà di elementi grafici: titoli e nobilia marginali, alcune iniziali figurate e decorate, iniziali calligrafiche e filigranate oltre ad una sequenza di letterine rubricate. 
Una dimostrazione evidente di tale operosità è possibile rintracciarla nel f. 2-r che apre l’Elucidarium di Onorio di Autum. La cura e la ricercatezza della mano dell’amanuense in questo caso è distinguibile nella composizione di alcune lettere: nella grande lettera iniziale Q di “Queritur” è possibile riconoscere la miniatura di un angelo disteso con le braccia alzate e l’ala sinistra che funge da coda della Q. All’interno della lettera troviamo la Maiestas Domini che siede su un trono su uno sfondo blu-grigiastro, indossa un indumento interno di colore marrone chiaro e abiti esterni di blu e rosso. Il piede destro, che è nudo, è visibile sotto le vesti del Cristo. Il suo braccio destro è alzato, con la mano eretta per benedire alla maniera greca e nella mano sinistra sembra tenere un libro dalla copertina azzurra. Anche l’angelo ha i capelli bruno-rossicci e le sue ali sono rosse con tocchi di giallo e blu-grigiastro. La sua veste interna è rossa-rosata con una manica verde e un gambo verticale verde in basso; l’indumento esterno è giallo-rossastro. Un altro esempio si rivela, sempre nell’Elucidarium, nel fol. 37-v. In questo caso nella lettera A che introduce la parola Antichristum. È presente l’iniziale figurata nuda di un grottesco personaggio, buffo e deforme, coronato su uno sfondo blu, avvolto da spire rosse che si trasmutano in una sorta di arco e che sembra correre brandendo nella mano destra una freccia.7G. Mariani Canova, P. Meldini, I codici miniati della Gambalunghiana di Rimini, Cassa di Risparmio di Rimini, 1988, pag. 85

(Miniatore di Telese. 1144-1154: iniziale figurata con l’Anticristo Onorio di Autun, Elucidarium: Ugo da San Vittore, De Tribus diebus, Florilegium peccatorum. SC-MS. 74.c.37)

Per quanto riguarda la scelta tematica, la predilezione ad inserire un testo come l’Elucidarium all’interno del codice è, forse, non del tutto casuale. L’Elucidarium è un’opera enciclopedica sulla teologia cristiana medievale e le credenze popolari. Si tratta di un dialogo tra maestro e discepolo, un manuale di teologia divulgativa, una sorta di catechismo indirizzato al basso clero per favorire l’apprendimento e la diffusione di alcuni contenuti a carattere spirituale. Con ogni probabilità fu originariamente composto alla fine dell’XI secolo da Onorio di Autum, discepolo di Sant’Anselmo da Aosta vescovo di Canterbury. 
La propensione, dunque, ad inserire un testo del genere all’interno del manoscritto potrebbe essere stata sicuramente dettata dagli intercorsi rapporti tra l’abbazia e il Santo d’Aosta una cinquantina di anni prima quando il Santo fu ospitato nell’abbazia su invito dell’abate Giovanni e in questo luogo, secondo la tradizione, concluse il suo più importante lavoro, il Cur Deus Homo.8Eadmero di Canterbury, biografo di sant’Anselmo d’Aosta, riferì che l’arcivescovo fu invitato da papa Urbano II a Bari per partecipare ad un Concilio che si svolse nell’aprile del 1098 e che prevedeva la presenza di una importante delegazione di vescovi orientali. Venne perciò invitato dal discepolo Giovanni a soggiornare a San Salvatore. Giunto sul luogo in un torrido agosto e mal soffrendo tale residenza quoniam calor ibi cuncta torrebat preferì dimorare a Sclavia, una dipendenza dell’abbazia, quae in montis altitudine sita, sano jugiter aere conversantibus habilis extat. Qui si trattenne fino alla fine di settembre del 1098 per trovarsi il 1ottobre a Bari. G. Rossi, Catalogo dei Vescovi di Telese, pag. 61; Eadmero di Canterbury, Vita di Sant’Anselmo, a cura di S. Gavinelli, Jaca Book, Milano, 1987, pagg. 129-130.

Onorio – secondo le considerazioni della studiosa Virginia Brown – compose l’Elucidarium intorno o prima del 1100, forse prima del 1097 quando Anselmo iniziò i suoi viaggi. Non è impossibile escludere che il legame tra Anselmo e San Salvatore sia in qualche modo responsabile non solo dell’arrivo del libro di Onorio a Telese ma anche delle altre due opere.9Virginia Brown, op. cit., pag. 542
Altra opera contenuta in Rimini SC-MS n° 74 è il De tribus diebus di Ugo da San Vittore, un breve trattato di teologia naturale composto nel XI secolo in cui viene teorizzato il raggiungimento della conoscenza di Dio attraverso cose sensibili. In esso, inoltre, viene sviluppato il tema della Trinità attraverso la considerazione delle tre perfezioni che si riferiscono alle tre persone divine: potenza, sapienza e benevolenza. L’idea centrale del trattato è che ogni cosa costituisce una teofania, ossia una manifestazione di Dio: la potenza divina si rivela nella grandezza delle cose, la sapienza nella loro bellezza, la benevolenza nella loro utilità. Lo stesso accade secondo Onorio considerando lo spirito umano: la grandezza si evidenzia nella mente, la sapienza nell’intelletto, la benevolenza nell’amore.10Raimondi-Anselmi-Chines-Minetti, Tempi immagini della letteratura, Bruno Mondadori, Milano, 2003
Questo testo, così come l’Elucidarium, circolava negli ambienti monastici di quel periodo nel territorio beneventano; più raro è, invece, trovare un trattato come il Florilegium Peccatorium.11Virginia Brown, pag. 534
Di questo saggio, che comincia improvvisamente al fol.72-r (introdotto da un motivo floreale-geometrico rosso-rosato, blu, verde su fondo giallo), non abbiamo molte informazioni e non sono presenti all’interno del manoscritto né il titolo né la prefazione. Tutti elementi che non ci consentono di stabilire un indizio concreto sull’identità del compilatore. Sappiamo, però, che esso contiene una sequenza di cinquantasette brani tratti da scritti di padri della chiesa (da Agostino a Gregorio Magno, da Ambrogio a Cipriano) ed i temi sviluppati e descritti in maniera puntuale sono quelli relativi alle dottrine legate al peccato, alla punizione e al pentimento.
Il Colophon appare particolarmente interessante poiché non risultano molte testimonianze di testi miscellanei che comprendano insieme saggi come l’ElucitariomDe tribus diebus e il Florilegium che circolassero nella zona del Sannio. Anzi, al momento il manoscritto Rimini SC-MS. 74, risulta essere l’unico testimone in scrittura beneventana.12Ivi, pag. 538.

(Miniatore Giovanni di Telese, 1144-1154: iniziale figurata con Maiestas Domini. Onorio di Autun, Elucidarum, Ugo da San Vittore, De tribus diebus; Florilegium peccatorium, SC-MS. 74, c. 2 r.)

Di maggior interesse è sicuramente il foglio 89 r-v, contenente il Colophon, che ci permette di chiarire una serie di interrogativi e grazie al quale è stato possibile stabilire l’esistenza di uno scriptorium nel monastero benedettino di San Salvatore. 
Composto da quarantasei esametri, di quali quarantaquattro sono leonini (verso tra i più coltivati nella letteratura medievale) e costituiscono un poema dedicatorio, il colophon è il secondo più lungo finora rinvenuto in un manoscritto beneventano.13Solo un altro colophon, quello di Cava 24 (a. 1268-95), anch’esso in esametri leonini e comprendente quarantasette righe, è più lungo del colophon telesino. Cfr. Virginia Brown, cit., pag. 522.
Il documento è databile tra il 1142 ed il 1154 e vede la luce durante un decennio particolarmente importante non solo per il monastero telesino ma per l’intera storia normanna del Mezzogiorno d’Italia. Il 1142, con ogni probabilità, è l’anno di morte dell’abate Alessandro Telesino, forse la figura più rappresentativa del monastero benedettino, mentre il 1154 corrisponde alla data della scomparsa del Re normanno Ruggero II. 
Uomo di notevole cultura ed altrettanta abilità politica, Alessandro Telesino è lo storico dell’epopea normanna e deve la sua popolarità alla straordinaria capacità di intrecciare rapporti di stima ed amicizia con personaggi altolocati ed influenti. Frequenta la corte di Matilde d’Altavilla, che lo invita più volte a narrare le gesta di Ruggero il Normanno ed Alessandro acconsente volentieri redigendo il «De Rebus Gestis Rogerii Siciliae Regis», un’opera in quattro volumi in cui si descrivono le vicende di un periodo storico (1127-1136) particolarmente intenso e burrascoso durante il quale Ruggero assume lo scettro di Re di Sicilia, Calabria e Puglia sostenendo lotte e guerre per affermare la sua supremazia su tutti i signori e signorotti del Sud e realizzando, di fatto, un’unità politica ed amministrativa nell’Italia meridionale.14«Il De rebus gestis… è opera che potremmo attribuire ad un genere preciso: la retorica del potere regio (…). Siamo davanti a notizie che provengono dall’establishment normanno e la critica, pur tra etichette tiranniche e perplessità di fondo, colloca Alessandro nel cuore della gerarchia centralizzata». Cfr.: M. ODONI, Realismo e dissidenza nella storiografia di Ruggero II: Falcone Beneventano e Alessandro di Telese in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II a cura del Centro Studi nor-manno-svevi dell’Università degli Studi di Bari, Dedalo libri, 1979, pag. 269.
È proprio sulla base di questo rapporto tra Alessandro e il Re che si giustifica la visita che Ruggero, verso la metà di agosto del 1133, reca all’abbazia di San Salvatore dove incontra l’abate e si raccomanda alle orazioni dei frati, rimanendo ospite per tre giorni e ricevendo, in segno di fratellanza, la cocolla di S. Benedetto. 
L’anno successivo (1134) il sovrano ritorna a San Salvatore per incontrare il fedele abate Alessandro, accompagnato dal figlio Anfuso che veste i panni dell’ordine benedettino ed ottiene il privilegio di fregiarsi della stessa onorificenza già conferita al padre.15A. M. Iannacchino, Storia di Telesia, sua diocesi e pastori, Tip. D’Alessandro, Benevento, 1900, pag. 93.
Con la scomparsa di Alessandro Telesino, il monastero passò definitivamente nelle mani dell’abate Stefano, che nel 1135 risulta priore subentrato all’abate scrittore sin da quando quest’ultimo abbandona gli impegni monastici e dirigenziali per dedicarsi alla stesura della sua Historia.16Luigi R. Cielo, L’abbaziale normanna di S. Salvatore de Telesia, ESI, Napoli, 1995, pag. 29.
Dalle informazioni che abbiamo leggendo il Carmen, dunque, è possibile stabilire una serie di indiscutibili elementi: il codice fu copiato durante il regno di re Ruggero II (questo ci viene esplicitamente detto al v. 27: «Carmine certa cano sub regno Rogeriano») da uno scrivano di nome Giovanni che si sottoscrive al primo verso del Carmen: «Permaneat felix semper persona Iohannis, Qui me descripsit», al comando dell’abate Stefano, e dedicato a tal Ebulo.
Non conosciamo molto della storia di quest’ultimo personaggio ma sappiamo con ogni probabilità che si tratta di Ebulo di Magliano Vetere, ciambellano del re in Terra di Lavoro dal 1140 al 1156-60.17«Ebulus di Magliano Vetere è l’unico ufficiale tra i giustizieri e ciambellani citati da Jamison per Apulia e Capua a portare il nome ‘Ebulus’ e a ricoprire la carica prima della morte del re avvenuta nel 1154. Nel settembre 1174 ‘Ebulus filius marini napolitanus’ era giudice del Ducato di Amalfi Jamison, ibid., 369, ma questo è troppo tardi, naturalmente, per l’Ebulus’ del nostro poema dedicatorio e, comunque, Telese non si trovava in questa contrada.» Cfr. Virginia Brown, op. cit., pag. 530 Ci sono abbondanti prove della sua attività dal momento in cui appare per la prima volta nel 1140.18Jamison, ibid. fornisce sei riferimenti del nome Ebulus in vari documenti (“Calendario dei documenti”, nn. 9, 29, 30, 35, 36, 40). Frioli, “Poesia” identifica l'”Ebulo” del poema dedicatorio con Ebulo ciambellano reale; anche se in maniera incerta (“Meno sicuramente risolta l’identità di Ebulo”) e della base di un solo documento (Jamison, n. 9; I. Leccisotti e F. Avagliano, a cura di, Abbazia di Montecassino. I regesti dell’archivio, 11 voll, Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stati 54, 56, 58, 60, 64, 74,78, 79,81, 86, 95 Roma, 1964-771, 7.241, n. 1379). Cfr. E. Jamison, The Norman Administration of Apulia and Capua: More Especially Under Roger II and William I, 1127-1166.
Presumibilmente Ebulo fu figlio di Conte Lamberto, longobardo, che possedette beni feudali a Magliano Vetere e a Policastro, nell’attuale provincia di Salerno. Nel corso del tempo, però, perse la carica ed i feudi che solo in parte furono poi assegnati al figlio Absolone.19Civiltà del Mezzogiorno d’Italia, Filippo d’Oria, pag. 37.

Il vero interrogativo del colophon risiede proprio nell’esaltazione di questo personaggio come destinatario della poesia (e probabilmente dell’intero manoscritto) e non allo stesso Re Ruggero, visti gli affettuosi rapporti che intercorrevano tra quest’ultimo e l’abbazia.20

Nell’agosto del 1133 Ruggero visitò per la prima volta l’Abbazia di S. Salvatore venendo accolto dai monaci con canti ed inni di lode. Una seconda visita ci fu nel 1135 quando lo stesso Ruggero fu proclamato re di Benevento e il suo terzo figlio Anfuso divenne principe di Capua. Nella sala capitolare il re tenne un breve discorso e salutò in modo amichevole l’abate e i monaci. Poi, alla presenza del re, Anfuso fu accolto nella loro fraternità per mano dell’abate Alessandro. Quando Ruggero ebbe mangiato e stava tornando nella sua stanza, Alessandro colse l’occasione per chiedergli la montagna sopra il monastero che era stata perduta da molti anni. Il re promise che la montagna sarebbe stata restaurata e che l’argento sarebbe stato dato per un calice e due incensieri come compenso per i sacri vasi presi dall’altare da Rainulfo, ma che la richiesta doveva essere fatta quando Ruggero era a Salerno.A tempo debito Alessandro inviò a Salerno il priore Stefano e un altro monaco per ricordare al re le sue promesse. Ruggiero diede loro volentieri i soldi e ordinò Jocelin, chiamato vicedominus da Alessandro, di restituire il monte nelle proprietà dell’abbazia. Alcuni autori, tra cui il Petrucci, ritengono che in virtù di tali concessioni l’abbazia ebbe «vaste terre adiacenti e alquanto lontane» ed il diritto di esercitare il baronaggio sul Casale di San Salvatore e su altre due signorie, quella di Rajeta e di Carattano. Cfr.: E. Bove, San Salvatore Telesino: da Casale a Comune, Tip. del Matese, Piedimonte Matese, 1990, pag. 115. 

I ciambellani, oltre a essere servitori reali dipendenti e responsabili, erano anche in costante contatto con il re a cui spesso dava loro ordini ben precisi. Ne è un esempio il mandato di Ruggero II il quale concesse, tramite il suo vicedominusGaugellino, alcuni possedimenti del contado e la proprietà della collina che sovrastava il monastero detta Massa Superiore e che successivamente sarà conosciuta come la Rocca di San Salvatore per la costruzione di un castello-fortezza edificato dai Sanframondo verso la fine del XIII secolo.21Alcuni autori, tra cui il Petrucci, ritengono che in virtù di tali concessioni l’abbazia ebbe «vaste terre adiacenti e alquanto lontane» ed il diritto di esercitare il baronaggio sul Casale di San Salvatore e su altre due signorie, quella di Rajeta e di Carattano. Cfr.: E. Bove, op. cit., pag. 115.

Ci sono due testimonianze documentate in cui Ruggero diede personalmente istruzioni a Ebulo: ad Atina nel 1140 quando Ruggero ordinò a Ebulo di tenere un’inchiesta sui diritti reali e sui confini della città, e a Sessa (data imprecisata) dove Ruggero ordinò a Ebulo di assegnare ai cittadini un certo corso d’acqua per il loro utilizzo.22Virginia Brown, pag. 531, Cfr. E. Jamison, “Norman Administration”, 412-14, 431-32, nn. 9, 35,36.
Il periodo in cui è stato composto il Colophon rappresenta, per i possedimenti di Ruggero II sulla terraferma, un momento di pace e tranquillità. Questo stallo, e la lontananza su alcuni territori periferici del suo regno, avevano consentito allo stesso Ebulo di guadagnare, come figura di riferimento sul territorio, le simpatie del monastero e sui quali lo stesso ciambellano con ogni probabilità esercitava una certa autorità non solo dal punto di vista amministrativo, ma anche giurisdizionale e militare. La dedica celerebbe così il tentativo di catturare la benevolenza di un autorevole funzionario particolarmente vicino alla corona e di perseguire, secondo la tradizione del cenobio, una politica filo-governativa lungo la scia tracciata da Alessandro. In qualità di ciambellano Ebulo era un finanziere con responsabilità amministrative e giudiziarie e poteva trasferire ai beneficiari le concessioni che avevano ottenuto dal re; poteva inoltre assegnare e verificare i conferimenti di terre demaniali e le concessioni di privilegi e immunità ai privati; aveva anche il compito di proteggere le chiese che il re poneva sotto la sua speciale cura. In questo modo Ebulus appariva come un uomo di notevole importanza le cui attività avrebbero quasi certamente toccato le preoccupazioni del monastero prima o poi. Per questo motivo l’abate Stefano esorta Ebulo, attraverso le parole del Carmen, a una richiesta di aiuto e protezione e, più in generale, una preghiera a preservare l’ordine.23Virginia Brown, pag. 530
Seguendo il testo e grazie alla fatica di importanti studiose – in particolare Donatella Frioli e Virginia Brown nel loro lavoro di traduzione e decodificazione di un testo così antico –, contenutisticamente il Carmen dedicatorio può essere così ripartito attraverso la seguente suddivisione: Nei vv. 1-2 vi è la consueta supplica dello scriba per il benessere spirituale; i vv. 3-5 contengono una breve presentazione a Ebulo del manoscritto da parte dell’abate Stefano che viene definito dallo stesso priore, con enfasi, divinus liber (“dat munus Stephanus isti,/ Est quia divinus liber hic, abbas Telesinus, Ebulus accepit.” Vv. 3-5); i versi 6-23 contengono un vero e proprio elogio del manoscritto fatto dal priore Stefano a cui si aggiunge l’invito a seguirne i celesti insegnamenti che eleveranno ulteriormente la posizione di Ebulo, destinatario del dono (“Caelibis ecce vie liber hic est dialogie./Celestis regis retinet moderamina /legis /Laude sub immensa.” Vv. 7-9).  Infine i vv. 24-46 sono quelli che aprono il discorso diretto da parte del abbate Stefano in cui l’autore del colophon e tutta la congregazione pregano affinché il re mostri la sua benevolenza nei confronti di Ebulo al fine di garantirgli una giusta promozione (Ebule, vir Christi, semper sine fraude fuisti/ Sis salvatoris vestri memor omnibus horis./ Qui te formavit, qui te quoque magnificavit. Vv. 24-26), a questo segue l’immediata esortazione di una richiesta di aiuto e protezione da parte degli abbati che invitano esplicitamente il ciambellano a sopprimere i rapinatori (“Per v<iam> adiutor sis semper undique tutor,/Gaudia tutele des auxiliumque fidele./ Comprime raptores et eorum pelle furores:) e a perseguire i ladri (Diligit obscurum tempus manus improba furum,/ Set laqueo pones, tibi rege iubente, latrones.” Vv. 30-34). Questo riferimento lascia intendere, con ogni ragionevolezza, che Ebulo avesse nella zona un’autorità tale da poter garantire, all’abbazia e al territorio sotto la sua giurisdizione, anche il mantenimento dell’ordine pubblico. 
Subitamente alla richiesta di aiuto da parte dei monaci telesini sono presenti nel Carmen alcune significative citazioni bibliche che descrivono alcuni avvenimenti collegati ai racconti dell’Antico Testamento e che hanno come scopo quello di esaltare ulteriormente la figura di Ebulo. I vv. 37-42, infatti, fanno riferimento a Giosuè ed in particolare al brano biblico in cui vengono menzionati i Gabaoniti24Gabaoniti, abitanti della città di Gabaon, sono menzionati nell’Antico Testamento per la prima volta in Giosuè 9 come persone che ingannarono gli israeliti al fine di proteggersi nel momento in cui questi, sotto la guida di Giosuè, si mossero alla conquista della Palestina cisgiordanica: i Gabaoniti, preoccupati di ciò che gli israeliti avevano fatto alle vicine città di Gerico e Ai, agirono con astuzia facendo sembrare che venissero da un villaggio lontano e fingendosi sfiancati da un lungo viaggio. Chiesero a Giosuè di potersi alleare con gli israeliti e di stringere con loro un patto. Ma quando Giosuè scoprì l’inganno, non potendo punirli (avendo pronunciato un giuramento nel nome di Dio) furono in perpetuo assoggettati a portar acqua e a tagliar legna per uso del santuario, mentre in ricambio ebbero salva la vita e furono validamente difesi contro i re Amorrei di Gerusalemme, di Ebron, di Jerimot, di Lachis e di Eglon, tra loro coalizzati per punirli d’aver patteggiato con l’invasore. Cfr. Treccani. (s.d.). Vocabolario Treccani online. https://www.treccani.it/enciclopedia/gabaon/ (“Sepius oramus, dominum pro te rogitamus/ Vir Iosue fortis, Iudee duxque cohortis,/ Cum Gabaonitis pugnans ad bella peritis,”vv. 34-36) anche se non è possibile stabilire un’attinenza concreta tra la citazione biblica e il testo del Carmen. Non è chiaro, inoltre, quale sia la connessione nei versi successivi di un’altra citazione biblica in cui viene specificato come, attraverso la preghiera, Mosè poté rallentare il corso del tempo riuscendo a fare più di Giosuè con il suo esercito. Il riferimento in questo caso è all’intervento di Mosè in una delle battaglie di Giosuè che avvenne nella lotta di quest’ultimo con gli Amaleciti quando gli Israeliti erano ancora nel deserto: nel brano viene riportato l’evento secondo il quale Mosè (Esodo 17:11) fino a quando tenne alzate le mani durante questa battaglia in segno di supplica verso Dio, permise alle forze di Giosuè vincere definitivamente la guerra (“Qui bene pugnabat, Moyses, dominumque rogabat:/ Orans vincebat magis hoc, qui bella movebat.” Vv. 39-40).

Con ogni probabilità il parallelismo tra Ebulo e Mosè è un intento da parte di Stefano per celebrare ancora una volta la figura del ciambellano il quale attraverso la preghiera dei monaci (proprio come fece Mosè vincendo la battaglia) avrebbe potuto ottenere una gloriosa ricompensa celeste (“A domino certa capies super ethera (?) serta./ Sumes namque bonam Christo tibi dante coronam.” Vv. 42-43).  

Ad ogni modo tali eventi che riguardano la sfera biblica vengono raccontarti nella poesia con una certa approssimazione, probabilmente perché si basavano su una memoria non troppo precisa dell’autore.
Seppure il testo non rappresenti un’eccellenza sotto il profilo grafico e compositivo confrontandolo con i modelli aulici di quel periodo (la scrittura si presenta piccola e rigida, le miniature hanno un disegno stentato e poco curato, i colori disposti in maniera casuale), il manoscritto SC – MS 74 assume, però, una certa rilevanza non solo per la sua vetustà, ma per averci restituito un pezzo di storia del Sannio Telesino, unico nel suo genere, grazie al quale è stato possibile stabilire come anche l’abbazia di San Salvatore durante l’età medievale sia stata impegnata nell’arduo lavoro di trascrizione e manifattura di testi manoscritti e di aver contribuito alla diffusione del sapere e della cultura. 

Rimini, Biblioteca civica Gambalunga. (SC-MS. 74 f. 89r – f. 89v.)

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[1] Per quanto riguarda le fonti, la prima testimonianza che attesta la presenza dell’abbazia prima del mille è confermata da un documento risalente al 1075 in cui l’abate Leopoldo sottoscrive una decisione in favore di Madelmo, abate di S.Sofia, essendo arcivescovo di Benevento Milone e vescovo di Telese Gilberto. Cfr. Luigi R. Cielo, L’Abbaziale normanna di S. Salvatore de Telesia, Casa Editrice Esi, Napoli, 1995, p. 4.
[2] L’attuale comune di San Salvatore Telesino nella valle telesina, nacque come casale di dipendenza monastica, verso la fine del XIV secolo.
[3] F. Ughelli, Italia Sacra, Venezia, 1717, vol. VI, pag. 95.
[4] Il codice è comunque testimonianza dell’interesse che rivestiva, agli occhi del Garampi, il particolare tipo di scrittura, allora definita “longobarda”. È il cardinale stesso che, sebbene senza piena consapevolezza, ha contribuito all’imporsi della nuova denominazione di “beneventana”; cfr., a tal proposito, le osservazioni di E.A. Loew, The Beneventan Script, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 19802 (Sussidi eruditi 33), p. 30 sgg. Cfr. I codici miniati della Gambalunghiana di Rimini, cit., pag. 90.
[5] Virginia Brown, Terra Sancti Benedicti: studies in the palaeography, history and liturgy of medieval Southern Italy, Edizioni Storia e Letteratura, Roma, 2005, pag. 518.
[6] Ivi, pag. 519.
[7] G. Mariani Canova, P. Meldini, I codici miniati della Gambalunghiana di Rimini, Cassa di Risparmio di Rimini, 1988, pag. 85.
[8] Eadmero di Canterbury, biografo di sant’Anselmo d’Aosta, riferì che l’arcivescovo fu invitato da papa Urbano II a Bari per partecipare ad un Concilio che si svolse nell’aprile del 1098 e che prevedeva la presenza di una importante delegazione di vescovi orientali. Venne perciò invitato dal discepolo Giovanni a soggiornare a San Salvatore. Giunto sul luogo in un torrido agosto e mal soffrendo tale residenza quoniam calor ibi cuncta torrebat preferì dimorare a Sclavia, una dipendenza dell’abbazia, quae in montis altitudine sita, sano jugiter aere conversantibus habilis extat. Qui si trattenne fino alla fine di settembre del 1098 per trovarsi il 1ottobre a Bari. G. Rossi, Catalogo dei Vescovi di Telese, pag. 61; Eadmero di Canterbury, Vita di Sant’Anselmo, a cura di S. Gavinelli, Jaca Book, Milano, 1987, pagg. 129-130.
[9] Virginia Brown, op. cit., pag. 542.
[10] Raimondi-Anselmi-Chines-Minetti, Tempi immagini della letteratura, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
[11] Virginia Brown, pag. 534.
[12] Ivi, pag. 538.
[13] Solo un altro colophon, quello di Cava 24 (a. 1268-95), anch’esso in esametri leonini e comprendente quarantasette righe, è più lungo del colophon telesino. Cfr. Virginia Brown, cit., pag. 522.
[14] «Il De rebus gestis… è opera che potremmo attribuire ad un genere preciso: la retorica del potere regio (…). Siamo davanti a notizie che provengono dall’establishment normanno e la critica, pur tra etichette tiranniche e perplessità di fondo, colloca Alessandro nel cuore della gerarchia centralizzata». Cfr.: M. ODONI, Realismo e dissidenza nella storiografia di Ruggero II: Falcone Beneventano e Alessandro di Telese in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II a cura del Centro Studi nor-manno-svevi dell’Università degli Studi di Bari, Dedalo libri, 1979, pag. 269.
[15] A. M. Iannacchino, Storia di Telesia, sua diocesi e pastori, Tip. D’Alessandro, Benevento, 1900, pag. 93.
[16] Luigi R. Cielo, L’abbaziale normanna di S. Salvatore de Telesia, ESI, Napoli, 1995, pag. 29.
[17] «Ebulus di Magliano Vetere è l’unico ufficiale tra i giustizieri e ciambellani citati da Jamison per Apulia e Capua a portare il nome ‘Ebulus’ e a ricoprire la carica prima della morte del re avvenuta nel 1154. Nel settembre 1174 ‘Ebulus filius marini napolitanus’ era giudice del Ducato di Amalfi Jamison, ibid., 369, ma questo è troppo tardi, naturalmente, per l’Ebulus’ del nostro poema dedicatorio e, comunque, Telese non si trovava in questa contrada.» Cfr. Virginia Brown, op. cit., pag. 530.
[18] Jamison, ibid. fornisce sei riferimenti del nome Ebulus in vari documenti (“Calendario dei documenti”, nn. 9, 29, 30, 35, 36, 40). Frioli, “Poesia” identifica l'”Ebulo” del poema dedicatorio con Ebulo ciambellano reale; anche se in maniera incerta (“Meno sicuramente risolta l’identità di Ebulo”) e della base di un solo documento (Jamison, n. 9; I. Leccisotti e F. Avagliano, a cura di, Abbazia di Montecassino. I regesti dell’archivio, 11 voll, Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stati 54, 56, 58, 60, 64, 74,78, 79,81, 86, 95 Roma, 1964-771, 7.241, n. 1379). Cfr. E. Jamison, The Norman Administration of Apulia and Capua: More Especially Under Roger II and William I, 1127-1166.
[19] Civiltà del mezzogiorno d’Italia, Filippo d’Oria, pag. 37.
[20] Nell’agosto del 1133 Ruggero visitò per la prima volta l’Abbazia di S. Salvatore venendo accolto dai monaci con canti ed inni di lode. Una seconda visita ci fu nel 1135 quando lo stesso Ruggero fu proclamato re di Benevento e il suo terzo figlio Anfuso divenne principe di Capua. Nella sala capitolare il re tenne un breve discorso e salutò in modo amichevole l’abate e i monaci. Poi, alla presenza del re, Anfuso fu accolto nella loro fraternità per mano dell’abate Alessandro. Quando Ruggero ebbe mangiato e stava tornando nella sua stanza, Alessandro colse l’occasione per chiedergli la montagna sopra il monastero che era stata perduta da molti anni. Il re promise che la montagna sarebbe stata restaurata e che l’argento sarebbe stato dato per un calice e due incensieri come compenso per i sacri vasi presi dall’altare da Rainulfo, ma che la richiesta doveva essere fatta quando Ruggero era a Salerno. A tempo debito Alessandro inviò a Salerno il priore Stefano e un altro monaco per ricordare al re le sue promesse. Ruggiero diede loro volentieri i soldi e ordinò Jocelin, chiamato vicedominus da Alessandro, di restituire il monte nelle proprietà dell’abbazia. Alcuni autori, tra cui il Petrucci, ritengono che in virtù di tali concessioni l’abbazia ebbe «vaste terre adiacenti e alquanto lontane» ed il diritto di esercitare il baronaggio sul Casale di San Salvatore e su altre due signorie, quella di Rajeta e di Carattano. Cfr.: E. Bove, San Salvatore Telesino: da Casale a Comune, Tip. del Matese, Piedimonte Matese, 1990, pag. 115.
[21] Alcuni autori, tra cui il Petrucci, ritengono che in virtù di tali concessioni l’abbazia ebbe «vaste terre adiacenti e alquanto lontane» ed il diritto di esercitare il baronaggio sul Casale di San Salvatore e su altre due signorie, quella di Rajeta e di Carattano. Cfr.: E. Bove, op. cit., pag. 115.
[22]Virginia Brown, pag. 531, Cfr. E. Jamison, “Norman Administration”, 412-14, 431-32, nn. 9, 35,36.
[23] Virginia Brown, pag. 530.
[24] Gabaoniti, abitanti della città di Gabaon, sono menzionati nell’Antico Testamento per la prima volta in Giosuè 9 come persone che ingannarono gli israeliti al fine di proteggersi nel momento in cui questi, sotto la guida di Giosuè, si mossero alla conquista della Palestina cisgiordanica: i Gabaoniti, preoccupati di ciò che gli israeliti avevano fatto alle vicine città di Gerico e Ai, agirono con astuzia facendo sembrare che venissero da un villaggio lontano e fingendosi sfiancati da un lungo viaggio. Chiesero a Giosuè di potersi alleare con gli israeliti e di stringere con loro un patto. Ma quando Giosuè scoprì l’inganno, non potendo punirli (avendo pronunciato un giuramento nel nome di Dio) furono in perpetuo assoggettati a portar acqua e a tagliar legna per uso del santuario, mentre in ricambio ebbero salva la vita e furono validamente difesi contro i re Amorrei di Gerusalemme, di Ebron, di Jerimot, di Lachis e di Eglon, tra loro coalizzati per punirli d’aver patteggiato con l’invasore. Cfr. Treccani. (s.d.). Vocabolario Treccani online. https://www.treccani.it/enciclopedia/gabaon/



Antonio Bove

Laurea magistrale in Lettere. Docente a Prato. Ha realizzato uno studio su "Telesia: vita e morte di una città dell'Italia antica". Ha successivamente approfondito le vicende dei movimenti operai e bracciantili che portarono nel 1957 all'organizzazione della "marcia della fame" quando oltre mille braccianti agricoli partirono dall'Alto Fortore nel tentativo di arrivare a Roma.